"Lo sento dentro di me!" esclamò. "Lo giuro! È ancora in mezzo a noi. Mettetelo giù! Mettetelo giù!"

I portantini obbedirono all'ordine e Gentle poté vedere per la prima volta quegli stranieri che gli avevano già quasi dato l'addio. Neppure adesso si potevano definire un gruppo allegro. Fissavano quel corpo, ancora increduli. Ma il pericolo era passato, almeno per il momento. Il mystif si piegò verso Gentle e lo baciò sulle labbra. Il viso di Pie aveva ripreso la sua forma originaria: i lineamenti erano ora resi stupendi dalla sua gioia.

"Ti amo," gli sussurrò. "Ti amerò fin quando l'amore sparirà dalla faccia della terra."

 

II

 

Vivo era vivo, ma non era guarito. Fu condotto in una piccola stanza di mattoni grigi e disteso su un letto solo poco più comodo delle assi su cui lo avevano posato cadavere. C'era una finestra, ma essendo incapace di muoversi, Gentle doveva affidarsi a Pie'oh'pah per alzarsi e farsi mostrare ciò che si vedeva da lì. Un panorama non molto più interessante delle pareti: non era altro che la distesa di mare aperto ritornato allo stato solido sotto un cielo nuvoloso.

"Il mare cambia solo quando fa capolino il sole," gli spiegò Pie. "Cosa che non accade molto spesso. Siamo stati sfortunati. Tutti sono stupefatti che tu sia sopravvissuto. Nessuno che sia caduto nella Culla è mai riuscito a venirne fuori vivo."

Che Gentle fosse diventato oggetto di curiosità era comprovato dal gran numero di visitatori che venivano a trovarlo: guardie e prigionieri. Il regime carcerario non sembrava particolarmente rigido, almeno a giudicare dal poco che riusciva a vedere. C'erano inferriate alle finestre e la porta veniva aperta e richiusa ogni volta che qualcuno andava e veniva, ma gli ufficiali erano abbastanza gentili, in particolare Vigor N'ashap, l'Oethac che gestiva la casa, e il suo secondo - un militare vanitoso di nome Aping, i cui bottoni e stivali luccicavano più dei suoi stessi occhi e la cui stupidità traspariva chiaramente dai lineamenti.

"Non ricevono notizie dall'esterno, qui," spiegò Pie. "Ricevono solo i prigionieri a cui devono badare. N'ashap sa che c'è stato un complotto contro l'Autarca, ma dubito che sappia se è riuscito o meno. Mi hanno interrogato per ore, ma non mi hanno fatto domande dirette su di noi. Ho solo detto loro che siamo amici di Scopique, che avevamo sentito che era diventato pazzo e che siamo venuti a trovarlo. La massima innocenza, in altre parole. E sembra che l'abbiano bevuta. Però, ogni otto o nove giorni ricevono cibo, giornali e riviste - anche se sempre di vecchia data, almeno a detta di Aping - perciò la nostra fortuna non ci assisterà per molto. Nel frattempo sto facendo del mio meglio per tenerli allegri. Si sentono molto soli."

Il significato di quest'ultima osservazione non sfuggì a Gentle, ma l'unica cosa che poteva fare era ascoltare e sperare di guarire al più presto. I suoi muscoli gli permettevano qualche piccolo movimento, come aprire e chiudere gli occhi, deglutire e muovere appena appena le mani, ma la schiena era ancora completamente rigida.

L'altro visitatore che veniva regolarmente, e che era molto più interessante di quelli che venivano solo per scrutarlo come degli idioti, era Scopique, il quale aveva un'opinione su qualsiasi cosa, inclusa la rigidità del paziente. Era un uomo minuto, strabico come un orologiaio, con un naso piccolo e così arricciato all'insù che le narici erano come due fori nel bel mezzo della faccia segnata pesantemente dalle rughe. Veniva ogni giorno e si sedeva sul bordo del letto di Gentle con quei suoi vestiti da manicomio raggrinziti come la sua figura, la parrucca nera che cambiava continuamente posizione sulla testa. Seduto, la tazza di caffè in mano, Scopique pontificava: sulla politica; sulle psicosi dei suoi compagni di stanza; sull'asservimento di L'Himby al commercio; sulla morte di alcuni suoi amici, la maggior parte uccisi da ciò che definiva la spada lenta della disperazione e, naturalmente, sulle condizioni di Gentle.

Diceva di aver già visto prima molte persone irrigidirsi allo stesso modo. Il motivo non. era fisiologico quanto psicologico, una teoria cui Pie sembrava dare molto peso. Un giorno, quando Scopique ebbe tolto il disturbo dopo una sessione di predica lasciando Gentle e Pie da soli, quest'ultimo diede libero sfogo al suo senso di colpa. Niente di tutto questo sarebbe accaduto, disse, se fin dall'inizio si fosse interessato di più alla situazione dell'amico. Invece, era stato rozzo e cattivo. L'incidente sul marciapiede alla stazione di Mai-Ké, per esempio. Avrebbe potuto perdonarlo? Gentle riusciva a credere che le sue azioni erano frutto di inettitudine e non di crudeltà? Per molti anni si era chiesto che cosa sarebbe accaduto se avessero intrapreso un viaggio come quello, e aveva cercato di trovare delle risposte, ma s'era sentito solo nel Quinto Dominio, incapace di confessare le proprie paure o di rivelare le sue speranze, e le circostanze del loro incontro e della partenza avevano fatto correre loro tanti rischi che le poche regole che si era posto si erano volatizzate nel vento.

"Perdonami," continuava a ripetere. "Ti amo, eppure ti ho fatto del male. Ti prego, perdonami."

Gentle esprimeva quel poco che poteva con gli occhi, e desiderava che le sue dita avessero la forza di tenere una penna con cui scrivere semplicemente "Sì, ti perdono", ma i piccoli progressi che aveva fatto da quando era tornato alla vita sembravano essere il limite massimo del suo risanamento e, benché Pie si preoccupasse della sua alimentazione, gli preparasse il bagno e gli massaggiasse i muscoli, non c'erano segni di ulteriore miglioramento. E, nonostante le parole di conforto del mystif, era fuor di dubbio che la morte non aveva ancora lasciato la presa. Una presa che esercitava su entrambi, peraltro, poiché anche Pie sembrava pagare uno scotto per la sua devozione, e più di una volta Gentle si chiese se il deperimento del suo compagno fosse effettivamente dovuto soltanto alla stanchezza o se invece, dopo tutto quel tempo trascorso insieme, non fossero ormai uniti in una sorta di simbiosi. Se così era, la sua morte avrebbe condotto entrambi all'oblio.

 

Era solo in quella cella il giorno in cui i soli fecero di nuovo capolino. Pie lo aveva aiutato a sedersi sul letto, così poté vedere, attrai verso le inferriate, il lento aprirsi delle nuvole e i deboli raggi che andavano a riflettersi sul mare solido. Era la prima volta, da quando erano arrivati, che i soli illuminavano Chzercemit, e Gentle sentì prima un coro di voci di benvenuto da altre celle, poi il rumore degli uomini che correvano verso il parapetto per osservare la trasformazione. Dal letto Gentle riusciva a vedere la superficie della Culla e provò una specie di allegria incontrollabile nell'accingersi a osservare quello spettacolo imminente, ma proprio mentre i raggi illuminavano la scena, un tremore che partiva dalle gambe e diventava sempre più forte cominciò a scuoterlo. Quando il tremito raggiunse la testa, Gentle perse i sensi. All'inizio pensava di essersi alzato e di essere andato verso la finestra - guardava il mare sottostante attraverso le sbarre - ma un rumore alla porta gli fece volgere gli occhi e incontrare quelli di Scopique, il quale stava entrando assieme ad Aping e si dirigeva verso un derelitto pallido, con la barba lunga di giorni e l'espressione allucinata. Era lui, quell'uomo.

"Devi venire a vedere, Zacharias!" disse entusiasta Scopique, abbracciando il derelitto per aiutarlo ad alzarsi.

Anche Aping diede una mano e assieme portarono Gentle alla finestra che la sua mente stava già dimenticando. Li lasciò fare. L'incontrollabile allegria che gli aveva percorso il corpo agiva da motore dentro di lui. Andò fuori nel corridoio, e passò davanti alle celle dove i prigionieri gridavano per essere liberati e poter vedere i soli. Non sapeva nulla della topografia del palazzo e, per alcuni istanti, la sua anima in pena perse l'orientamento in quel groviglio di mattoni grigi, finché non incontrò due guardie che si affrettavano sulle rampe delle scale in pietra. Le seguì come una mente invisibile e giunse a una fila di camere più illuminate. Lì c'erano altre guardie che buttarono all'aria le carte con cui stavano giocando per precipitarsi all'aperto.

"Dov'è il Capitano N'ashap?" disse uno di loro.

"Vado io a dirglielo," annunciò un altro, allontanandosi dai compagni e dirigendosi verso una porta chiusa solo per essere subito richiamato da un altro che gli urlò: "È in riunione. Con il mystif." La risposta suscitò risate ironiche nei suoi compagni.

L'animo improvvisamente ridestato, Gentle varcò la porta senza un attimo di esitazione. La stanza in cui entrò non era, come si era aspettato, l'ufficio di N'ashap, ma un'anticamera con due sedie vuote e un tavolo. Sulla parete dietro al tavolo era appeso il ritratto di un bambino, un disegno così brutto da non lasciare intendere se si trattasse di un maschio o di una femmina. A sinistra del quadro, che era firmato Aping, c'era una porta chiusa come quella da cui era appena passato Gentle. Si udivano dei suoni arrivare da quella stanza: era Vigor N'ashap in un momento di vera estasi.

"Ancora! Ancora!" ansimava, poi diceva qualcosa in una lingua straniera e seguitava implorando: "Sì" e "Là! Là!"

Gentle aprì la porta troppo in fretta per trovarsi preparato a quello che lo aspettava dall'altra parte. Ma anche se ne avesse avuto il tempo - anche se avesse evocato la vista di N'ashap con i calzoni abbassati e il suo fallo da Oethac, color porpora - non avrebbe mai potuto immaginare l'aspetto di Pie'oh'pah, dato che in tutti quei mesi trascorsi insieme non lo aveva mai visto svestito. Ora era lì, nudo, e in Gentle lo choc provocato dalla sua bellezza fu superato soltanto dall'umiliazione che ne seguì. Aveva un corpo pacato quanto il viso, tanto ambiguo quanto semplice. Non aveva peluria in nessuna parte del corpo; non aveva capezzoli, né ombelico. In mezzo alle gambe, che teneva divaricate mentre era inginocchiato di fronte a N'ashap, aveva ciò che gli permetteva di cambiare il proprio io. Non era un fallo né tanto meno una vagina. Era, invece, un'altra forma genitale che gli si muoveva nell'inguine come una colomba impazzita, e a ogni movimento ricreava il suo cuore rifulgente, tanto che Gentle, come ipnotizzato, ne scopriva ogni volta una nuova configurazione. In essa si rispecchiava la sua stessa carne così come gli si era rivelata al momento del passaggio attraverso i Domini. C'era il cielo sopra Patashoqua e il mare oltre la finestra dalle imposte chiuse che voltava il proprio dorso solido verso l'acqua vivente. E il respiro, soffiato nel pugno chiuso; e la forza che ne irrompeva: tutto lì, era tutto lì.

N'ashap non lo degnò di uno sguardo. Forse, nell'eccitazione, non lo vide nemmeno. Teneva la testa del mystif serrata tra le mani sfregiate mentre spingeva la punta del membro indurito nella bocca di Pie, il quale non opponeva alcuna resistenza. Il mystif teneva le mani lungo i fianchi del compagno finché lo stesso N'ashap non gli chiese di palpargli il fallo. Gentle non ne poté più. Lanciò la propria mente attraverso la stanza verso la schiena dell'Oethac. Non aveva forse sentito dire da Scopique che il pensiero era forza? Se davvero le cose stanno così, Gentle pensò, io sono un atomo duro come il diamante. Gentle udì N'ashap ansare di piacere mentre penetrava la gola del mystif, e colpì l'Oethac sul cranio. La stanza sparì ed egli sentì la carne ardente comprimersi da ogni parte, mentre l'impeto lo mandava a sbattere sul lato opposto della stanza. Si voltò e vide che N'ashap staccava le mani dalla testa del mystif per portarle alla propria, mentre dalla sua bocca senza labbra usciva un grido di dolore.

Pie, che finora aveva mantenuto un'espressione impassibile, si allarmò quando vide uscire sangue dalle narici di N'ashap. Gentle provò un senso di soddisfazione a quella vista, ma il mystif si alzò e andò in soccorso dell'ufficiale raccogliendo uno dei suoi stessi indumenti e cercando di bloccare il flusso di sangue. Per due volte N'ashap rifiutò il suo aiuto, ma la voce supplichevole di Pie lo raddolcì, e poco dopo il Capitano si lasciò cadere sulla sedia imbottita per farsi medicare. Le carezze e le attenzioni del mystif erano, per Gentle, tanto dolorose quanto la scena che egli aveva appena interrotto, e perciò si ritrasse, confuso e sconfitto, prima sulla porta e poi nell'anticamera.

Rimase lì per un po' a fissare il quadro di Aping. Nella stanza dietro di lui, N'ashap aveva ricominciato a gemere. Quel suono spinse Gentle a uscire nel labirinto e a dirigersi verso la sua camera. Scopique e Aping avevano adagiato il suo corpo sul letto. Il suo viso era privo di espressione e un braccio era scivolato dal petto e penzolava dal bordo del giaciglio. Sembrava morto. Non c'era da meravigliarsi che la devozione di Pie si fosse trasferita a un'altra creatura, dal momento che la sola cosa che avesse davanti a sé a dargli un barlume di speranza era quel manichino scheletrico che un giorno era in sé, l'altro no. Gentle si avvicinò a quel corpo, tentato di non rientrarvi, di lasciarlo appassire e morire. Ma era troppo rischioso. E se la sua condizione attuale fosse necessaria per la sopravvivenza del suo io fisico? La mente poteva vivere senza la carne - così aveva spesso sentito affermare da Scopique proprio in quella cella - ma non era detto che ciò valesse anche per gli spiriti grezzi come il suo. La pelle, il sangue e le ossa rappresentavano la scuola in cui l'anima imparava a volare, e lui era ancora un pivellino per potersi permettere di marinarla. Doveva andare, per quanto vile potesse essere, doveva tornare dietro quegli occhi.

Andò di nuovo alla finestra e guardò fuori verso il mare scintillante. La vista delle onde che si frangevano sugli scogli gli riportò alla mente il terrore di affogare. Sentì quell'acqua viva attorcigliarsi intorno al suo corpo, premere sulle sue labbra come il fallo di N'ashap, che gli chiedeva di aprire la bocca e di ingoiarlo. Preso dall'orrore, indietreggiò e attraversò la stanza a gran velocità. Ritornò in sé; nella mente aveva ancora vive le immagini di N'ashap e del mare, e comprese all'istante quale fosse la natura del suo malessere. Scopique si era sbagliato, sì, si era sbagliato! C'era una ragione solida - sì, proprio solida - una ragione fisiologica per la sua inerzia. La poteva sentire nel ventre, schifosamente vera. Aveva bevuto l'acqua del mare e quell'acqua era ancora dentro di lui, e viveva a sue spese.

Prima che il suo intelletto lo potesse invitare alla prudenza, Gentle dette libero sfogo al suo disgusto, lanciando a ogni sua estremità una richiesta imperativa. Via! ordinò. Fuori! Alimentò la propria ira immaginando che N'ashap abusasse di lui come lui aveva abusato di Pie, pensando al seme dell'Oethac dentro il suo ventre. Con la mano sinistra riuscì ad attaccarsi al bordo del letto e a sporgersi verso il pavimento. Rotolò sul fianco e poi giù in terra, sbattendo duramente sul pavimento. L'impatto mosse qualcosa sul fondo del suo ventre. Gentle sentì che quel qualcosa cercava di riprendere possesso delle sue viscere, e il suo movimento era tanto violento da scuoterlo come un sacco di pesce appena pescato; ma ogni torsione spiazzava sempre più il parassita, e sembrava liberare il corpo di Gentle dalla sua tirannia. Le giunture scricchiolavano come gusci di noce, i tendini si contraevano e si rilassavano. Era un tormento e Gentle avrebbe desiderato urlare il suo dolore, ma non riusciva a emettere altro che un suono simile a un conato di vomito. Ma era già una musica: il primo suono che aveva emesso da quando aveva urlato mentre la Culla lo ingoiava. Durò poco. Tutto il suo organismo a pezzi stava spingendo il parassita fuori dallo stomaco. Lo sentiva nel petto, come se fosse un pasto di uncini che non vedeva l'ora di vomitare, senza riuscirci per la paura di rigettare anche le proprie viscere. Poi sembrò che anche il parassita si fosse accorto di quel momento di impasse; infatti, rallentò i movimenti, lasciando a Gentle la possibilità di tirare un respiro disperato attraverso i bronchi semiotturati da quella presenza. Con i polmoni pieni, fece un movimento tanto brusco quanto improvviso, si alzò tenendosi saldo al letto e, prima che il parassita potesse rinnovare l'attacco, Gentle fu in piedi per un istante e poi si lasciò cadere faccia a terra. Non appena toccò il pavimento, la cosa gli venne in gola e poi in bocca, e allora toccò a Gentle aiutarsi con le dita finché non la sputò. Venne fuori in due tempi, non desistendo dal tentativo di riconquistare il suo stomaco. Subito dopo Gentle vomitò anche il suo ultimo pasto.

Bisognoso d'aria, Gentle si sollevò e si sporse verso il letto. Filamenti di bava gli pendevano dal mento. La cosa sul pavimento si dimenava e lui la lasciò soffrire. Sembrava una cosa enorme quando era dentro di lui, invece non era più grande del suo pugno: un insieme senza forma di carne lattea e di vene argentee, senza arti, e ogni suo singolo elemento non era più spesso di uno spago, anche se ce n'erano almeno venti. Non emetteva alcun suono a parte una specie di sciabordio causato dal suo spasimare in mezzo all'ammasso bilioso del vomito sul pavimento.

Troppo debole per muoversi, Gentle era ancora abbandonato contro il letto quando, pochi minuti dopo, Scopique entrò per cercare Pie. La sua sorpresa fu davvero enorme. Chiamò aiuto, poi aiutò Gentle a sdraiarsi, continuando a fare domande, ma così velocemente che Gentle non ebbe né il fiato né l'energia per riuscire a rispondergli. Scopique si rimproverava il fatto di non avere compreso prima il problema.

"Pensavo fosse nella tua testa, Zacharias, e per tutto questo tempo... e per tutto questo tempo, invece, è stato nella tua pancia. Questo parassita bastardo!"

Arrivò Aping e ci fu un secondo giro di domande. Questa volta toccava a Scopique rispondere. Poi quest'ultimo andò a cercare Pie, lasciando la guardia a pulire il vomito e ad accudire il paziente portandogli acqua fresca e vestiti puliti.

"Hai bisogno di qualcosa?" gli chiese Aping.

"Cibo," rispose Gentle. Il suo stomaco non si era mai sentito così vuoto.

"Te lo farò portare. È strano sentire la tua voce e vederti muovere. Mi ero abituato a vederti nell'altro modo." Sorrise. "Quando ti sentirai meglio," aggiunse, "dobbiamo trovare il tempo per parlare. Il mystif mi ha detto che dipingi."

"Sì, dipingevo," rispose Gentle, e chiese con aria innocente: "Perché? Anche tu dipingi?"

Gli occhi di Aping si illuminarono. "Sì," rispose.

"Allora ne dobbiamo parlare. Che cosa dipingi?"

"Paesaggi. E poi figure."

"Nudi? Ritratti?"

"Bambini."

"Oh, bambini... Hai figli?"

Il viso di Aping fu attraversato da un'espressione ansiosa. "Più tardi," disse, guardando il corridoio e poi ancora Gentle. "In privato."

"Sono a tua disposizione," concluse Gentle.

Fuori della stanza si udirono delle voci. Era Scopique, che tornava assieme a N'ashap. Quest'ultimo diede un'occhiata nel secchio dove c'era il parassita. Ci furono altre domande, o piuttosto le stesse formulate altrimenti cui risposero, questa volta, Scopique e Aping. N'ashap ascoltò distrattamente, studiando Gentle mentre la storia veniva ripetuta; poi si congratulò con lui in un modo curiosamente formale. Gentle notò con soddisfazione i tappi di sangue coagulato nel suo naso.

"Dobbiamo fare una relazione dettagliata dell'accaduto per Yzordderrex," disse N'ashap. "Sono sicuro che li incuriosirà tanto quanto sta incuriosendo me." Detto questo se ne andò, ordinando ad Aping di seguirlo immediatamente.

"Il nostro Comandante non sembra affatto in forma," osservò Scopique. "Chissà come mai."

Gentle sorrise, ma si irrigidì non appena vide che sulla porta era apparso un ultimo visitatore: Pie'oh'pah.

"Oh, bene!" esclamò Scopique. "Eccoti. Vi lascio soli."

Si ritirò chiudendo la porta dietro di sé. Il mystif non andò ad abbracciare Gentle, né gli prese la mano. Andò, invece, alla finestra e guardò giù, verso il mare illuminato ancora dal sole. "Adesso sappiamo perché la chiamano Culla," disse.

"Che vuoi dire?"

"In quale altro posto un uomo può dare la vita?"

"Quella non era vita," replicò Gentle. "Non illuderti."

"Forse non per noi," soggiunse Pie. "Ma chi sa come nascevano qui i bambini nei tempi antichi? Forse gli uomini si immergevano, bevevano l'acqua, la lasciavano crescere..."

"Ti ho visto," disse Gentle.

"Lo so," replicò Pie senza voltarsi. "E per poco non ci facevi perdere un alleato."

"N'ashap, un alleato?"

"È lui che comanda qui."

"È un Oethac. È feccia. E io ho intenzione di togliermi la soddisfazione di ucciderlo."

"Sei diventato il mio paladino?" domandò Pie voltandosi.

"Ho visto che cosa ti stava facendo."

"Non era niente," rispose Pie. "Sapevo anch'io che cosa stavo facendo. Perché credi che abbiamo avuto il trattamento che abbiamo avuto? Posso vedere Scopique tutte le volte che voglio. Tu sei stato nutrito e accudito. E N'ashap non ha fatto domande su nessuno dei due. Ora però le farà. Ora diventerà sospettoso. Dobbiamo muoverci in fretta prima che trovi risposta alle sue domande."

"Sempre meglio che tu gli debba fare di questi servizi."

"Ti ho detto che non era niente."

"Ma per me sì," disse Gentle, e le parole gli irritavano la gola già graffiata. Gli costò uno sforzo notevole, ma riuscì ad alzarsi e ad andare incontro al mystif. "All'inizio mi avevi detto che pensavi di avermi fatto del male, ricordi? Lo hai ripetuto alla stazione di Mai-Ké dove mi implorasti di perdonarti, e io ero convinto che non ci sarebbe mai stato nulla tra noi due che non poteva essere perdonato o dimenticato e che quando mi si fosse presentata l'occasione te l'avrei detto. Ma ora non so più. Lui ti ha visto nudo, Pie. Perché lui e non io? Credo che non potrò perdonarti questo, che tu abbia rivelato il mistero a lui e non a me."

"Non ha visto nessun mistero," lo confortò Pie. "Lui mi guardava e vedeva una donna che aveva amato e perduto a Yzordderrex. Una donna che assomigliava a sua madre. Questo è quello che lo ossessionava. Un'immagine dell'immagine di sua madre. E finché ho alimentato in lui l'illusione, con discrezione, è stato compiacente. Questo mi sembrava più importante della mia dignità."

"Non più, ora," ribatté Gentle. "Se dovessimo andarcene da qui assieme voglio che tu sia mio. Non intendo dividerti con nessun altro, Pie. Nemmeno per compiacenza. Nemmeno per la vita stessa."

"Non sapevo la pensassi a questo modo. Se me lo avessi detto..."

"Non potevo. Lo pensavo anche prima che venissimo qui, ma non riuscivo a dirtelo."

"Per quel che vale, ti chiedo scusa..."

"Non voglio che tu ti scusi."

"Che cosa vuoi, allora?"

"Una promessa. Un giuramento." Fece una pausa. "Un matrimonio."

Il mystif sorrise. "Davvero?"

"E la cosa che desidero più al mondo. Te l'ho già chiesto una volta e tu hai accettato. Devo chiedertelo ancora? Lo farò, se tu lo vuoi."

"No, non ce n'è bisogno," disse Pie. "Niente mi farebbe più onore. Ma, qui? Qui, con tutti i posti che ci sono?" Il suo cipiglio divenne un ghigno. "Scopique mi ha parlato di un Dearther chiuso in una delle cantine. Potrebbe essere lui a officiare."

"Qual è la sua religione?"

"È qui perché pensa di essere Gesù Cristo."

"Allora lo può provare facendo un miracolo."

"Quale miracolo?"

"Può fare di John Furie Zacharias un uomo onesto."

 

Il matrimonio tra il mystif Eurhetemec e il fuggitivo John Furie Zacharias, soprannominato Gentle, ebbe luogo quella stessa notte nei meandri più profondi del manicomio. Fortunatamente il prete che li avrebbe sposati era in un periodo di lucidità e voleva che lo si chiamasse con il suo vero nome, Padre Athanasius. Portava i segni della sua demenza: cicatrici sulla fronte, dove la corona di spine che si era fatto con le sue mani e indossava abitualmente aveva lasciato un solco profondo, e le piaghe sulle mani, dove la carne viva era stata trafitta dalla punta dei chiodi. Era contento del suo cipiglio quanto Scopique del suo ghigno, sebbene lo sguardo di un filosofo non si addicesse a quel viso più di quello di un commediante: con quel naso schiacciato che colava in continuazione, i denti troppo distanziati, le sopracciglia come bruchi pelosi, e la fronte a fisarmonica quando aggrottava le sopracciglia. Stava, assieme a una ventina di altri prigionieri giudicati particolarmente turbolenti, nella sezione più profonda del manicomio; aveva una cella senza finestre e godeva di una vigilanza più intensa di quella riservata agli ospiti rinchiusi ai piani più alti. Scopique aveva dovuto fare i salti mortali per riuscire ad avere un contatto con lui, e la guardia corrotta, un Oethac, era disposta a chiudere un occhio solo per pochi minuti. La cerimonia fu perciò breve, mezza in latino e mezza in inglese, con pochissime frasi pronunciate nella lingua dell'ordine di Athanasius nel Secondo Dominio, l'ordine dei Dearther, la cui musicalità compensava l'incomprensibilità. Quanto ai giuramenti veri e propri, furono necessariamente rapidi, dati i limiti di tempo e la ridondanza del vocabolario convenzionale.

"Tutto questo non viene fatto al cospetto di Hapexamendios," disse Athanasius. "Né al cospetto di Dio o dei rappresentanti di Dio. Noi preghiamo che la persona della Nostra Madre Santa possa guardare a quest'unione con la sua infinita pietà, e che voi possiate congiungervi in un'unione più grande in un tempo futuro. Fino ad allora, io sarò lo specchio del vostro sacramento che si celebra al vostro cospetto per il bene vostro."

Il significato di queste parole non colpì Gentle se non successivamente, quando, una volta fatti i dovuti giuramenti e finita la cerimonia, si ritrovò nella cella sdraiato accanto al suo compagno.

"Mi ero sempre ripromesso che non mi sarei mai sposato," sussurrò al mystif.

"Sei già pentito?"

"No, niente affatto. Ma è strano essere sposati e non avere una moglie."

"Certo che puoi avere una moglie. Mi puoi chiamare come più ti piace. Puoi reinventarmi. Sono fatto per questo."

"Non ti ho sposato per usarti, Pie."

"Ma fa parte del gioco. Dobbiamo essere l'uno funzione dell'altro. Come degli specchi, forse." Toccò il viso di Gentle. "Io ti userò. Credimi."

"Per che cosa?"

"Per tutto. Pace, litigi, piacere."

"Io voglio imparare da te."

"Che cosa?"

"Voglio imparare come si fa a volare fuori dalla mente, come ho fatto oggi pomeriggio. Voglio viaggiare con la mente."

"Con l'atomo," affermò Pie, ricordando a Gentle come si era sentito quando aveva diretto il pensiero contro il cranio di N'ashap. "Ovvero: una particella di pensiero vista alla luce del sole."

"Può avvenire soltanto alla luce del sole?"

"No. Però così è più facile. Tutto risulta più facile alla luce del sole."

"Tranne questo!" continuò Gentle baciando il mystif. "Ho sempre preferito la notte per questo..."

Si era coricato sul letto nuziale determinato a fare l'amore con il mystif così come lui realmente era, impedendo che qualsiasi fantasia si interponesse tra i suoi sensi e la visione che aveva avuto quel pomeriggio nell'ufficio di N'ashap. Il giuramento lo aveva reso nervoso come una sposa ancora vergine, sicché aveva bisogno di una doppia deflorazione. Mentre sbottonava e sfilava gli indumenti che nascondevano il sesso del mystif, doveva concentrarsi per non lasciarsi andare all'illusione che stava tra gli occhi e il loro oggetto. Che cosa avrebbe provato? Era facile essere eccitato da una creatura che il desiderio poteva plasmare così completamente da farla diventare indistinguibile dall'oggetto desiderato. Ma che ne era di colui che si lasciava plasmare, visto nudo da occhi nudi?

Nell'oscurità il suo corpo era quasi femmineo, le forme pacate, le superfici lisce, ma c'era qualcosa di severo nei suoi muscoli - non si poteva dire che fossero quelli di una donna; le sue natiche non erano floride né il seno era maturo. Pie non era sua moglie, per quanto fosse contento di interpretarne la parte; e pur se la mente di Gentle era continuamente tentata a lasciarsi andare a quella illusione, egli resistette, chiedendo ai suoi occhi di attenersi a ciò che vedevano, alle sue dita a ciò che toccavano. Cominciò a desiderare che ci fosse un po' più chiarore nella cella per non favorire l'ambiguità. Quando pose la mano nell'ombra delle gambe di Pie e ne sentì il calore e l'eccitazione, Gentle disse: "Voglio vedere." Pie si alzò ubbidiente e andò verso la luce della finestra in modo che Gentle potesse vedere bene. Il cuore gli batteva all'impazzata, ma il sangue non giungeva all'inguine. Andava alla testa, facendogli avvampare il viso. Era contento di sedere nella penombra dove il suo disagio era meno visibile, sebbene sapesse che l'ombra poteva nascondere solo l'esteriorità e che il mystif era perfettamente cosciente della paura che provava. Respirò profondamente e si alzò dal letto avvicinandosi quanto bastava per poter toccare quell'enigma.

"Perché ti stai facendo questo?" chiese Pie dolcemente. "Perché non vuoi lasciarti trasportare dal sogno?"

"Perché non voglio sognarti," rispose Gentle. "Ho iniziato questo viaggio per capire. Come posso capire se tutto ciò che vedo è illusione?"

"Forse è tutto qua quello che c'è da capire."

"Non è vero," disse Gentle semplicemente.

"Domani, allora," aggiunse Pie tentandolo. "Domani vedrai tutto più chiaro. Questa notte divertiti. Io non sono la ragione per cui ci troviamo nell'Imagica. Non sono il problema che devi risolvere."

"Al contrario," disse Gentle, lasciandosi sfuggire un risolino. "Io credo che la ragione sia proprio tu. E anche il problema. Sono convinto che se restassimo qui, rinchiusi insieme, potremmo capire molte cose." Il sorriso era visibile sul viso di Gentle, adesso. "Non me ne ero reso conto finora. Questo è il motivo per cui ti voglio vedere per intero, Pie: così non ci saranno bugie tra di noi." Mise la mano sul sesso del mystif, "Puoi scopare ed essere scopato con questo, giusto?"

"Sì."

"E puoi partorire?"

"Io non l'ho fatto, ma si sa che è accaduto."

"Puoi fecondare?"

"Sì."

"Meraviglioso. E che altro puoi fare?"

"Altro cosa?"

"Non si riduce tutto a prenderlo e darlo, non è vero? So che non è tutto qui. C'è qualcos'altro."

"Sì, è vero."

"Un terzo modo."

"Sì."

"Fallo con me, allora."

"Non posso. Sei un maschio, Gentle. Hai un sesso preciso. È un fatto fisico," disse Pie. Portò la mano sul membro di Gentle, ancora molle nei pantaloni. "Non posso strappartelo. Non lo vorresti." Aggrottò le sopracciglia. "O sì?"

"Non so. Forse."

"Non ci credo."

"Se ciò significasse trovare un modo, forse sì. Ho usato il cazzo in tutti i modi che conosco. Forse qualcuno in più."

Questa volta toccava a Pie a sorridere, un sorriso lieve, come se il disagio che Gentle aveva provato fosse ora passato nel mystif. Strinse gli occhi rifulgenti.

"A che cosa pensi?" chiese Gentle.

"Che mi incuti paura."

"Perché?"

"Perché ho paura del dolore futuro. Paura di perderti."

"Non mi perderai," lo rassicurò Gentle, mettendo un braccio intorno al collo di Pie e accarezzandogli la nuca con il pollice. "Ti ho già detto che possiamo capire molto da qui. Siamo forti, Pie."

L'ansia non scomparve dal viso del mystif, e allora Gentle avvicinò la faccia a quella del compagno, lo baciò, prima dolcemente, poi con un ardore crescente che sembrava non corrisposto. Solo alcuni istanti prima, seduto sul letto, era lui quello che tastava il terreno. Ora succedeva esattamente il contrario. Gli mise la mano sull'inguine sperando di distrarlo dalla sua tristezza con le carezze. Le dita incontrarono la carne, calda e irrorata da un liquido che gli gocciolò nell'incavo del palmo che la sua pelle assorbiva come fosse un liquore. Spinse più a fondo, sentendo l'eccitazione crescere al suo tocco. L'esitazione era sparita; non c'era vergogna o tristezza in quella carne, tale da indurre Pie a tenere a freno i propri desideri, e il desiderio era sempre riuscito a eccitare Gentle. Visto sul viso di una donna era un potente afrodisiaco, e adesso non era da meno.

Gentle afferrò la propria cintura, slacciandola con una mano. Ma non riuscì a impugnare il membro, ora così duro da fargli male, poiché il mystif lo precedette guidandolo dentro di sé con un'urgenza che il suo viso ancora non osava esprimere. Il sesso bagnato di Pie gli alleviò il dolore, risucchiandogli testicoli e tutto. Gentle emise un lungo sospiro di piacere con i nervi affamati di sensazioni. Il mystif teneva gli occhi chiusi, la bocca aperta. Gentle spinse la lingua tra le sue labbra e Pie rispose con una passione che l'altro non aveva mai riscontrato in lui prima. Le braccia attorno alle spalle di Gentle, Pie sbatté contro la parete, così violentemente che il respiro del mystif penetrò la gola di Gentle. Gentle lo spinse ulteriormente nei polmoni, incitando Pie a continuare. Il mystif capì al volo, inspirò l'aria calda tra i loro visi e riempì il torace di Gentle come se si trattasse di un annegato cui si effettua la respirazione artificiale per riportarlo alla vita. Gentle rispose con spinte vigorose, il liquido che scorreva liberamente sull'interno delle sue cosce. Un altro respiro, un altro ancora. Gentle li beveva tutti, saziandosi di piacere negli intervalli tra il respiro che gli veniva dato e il dono che faceva del proprio membro. Entrambi erano penetrati e penetravano; qualcosa che poteva somigliare a quel terzo modo al quale aveva accennato Pie, l'amplesso tra forze non determinate che poteva realizzarsi soltanto quando Gentle avesse rinunciato alla propria virilità. Ora, mentre spingeva il membro nel calore del sesso del mystif, il solo pensiero di abbandonare quel piacere per la ricerca di un'altra sensazione gli sembrava semplicemente ridicolo. Non poteva esistere niente di meglio, solo di diverso.

Gentle chiuse gli occhi. Non temeva più che la sua immaginazione potesse sostituire a Pie un ricordo, una perfezione inventata. Aveva solo paura che, se avesse osservato ancora per un poco la beatitudine del mystif, avrebbe perso completamente il controllo. Ciò che l'occhio della sua mente vedeva era comunque più potente: l'immagine di loro due stretti l'uno all'altro così com'erano, l'uno dentro l'altro, respiro e membro che penetravano la pelle del compagno più profondamente possibile. Gentle voleva avvertire Pie che non riusciva più a trattenersi, ma Pie aveva già capito. Gli afferrò i capelli, allontanando da sé quel viso, e il dolore per il distacco agì come da sprone, al pari dei gemiti che entrambi emisero. Gentle aprì gli occhi per vedere l'espressione del mystif mentre godeva e, sotto i colpi incessanti, la bellezza che gli stava di fronte divenne uno specchio. Aveva davanti agli occhi l'immagine della sua faccia, era il suo stesso corpo che Gentle stava stringendo tra le braccia. L'illusione non lo raffreddò. Al contrario. Prima che lo specchio tornasse carne soffice, e il sudore tornasse sul viso dolce di Pie, Gentle oltrepassò il punto di non ritorno e fu con quell'immagine negli occhi - il proprio viso fuso in quello del mystif - che il suo corpo rilasciò un piccolo torrente. Come sempre, fu un'estasi e un tormento, un breve delirio seguito da un senso di perdita cui non si sarebbe mai rassegnato.

Il mystif iniziò a ridere ancora prima che Gentle avesse finito; quando questi riuscì a tirare il fiato gli chiese: "Che cosa c'è da ridere?"

"Il silenzio," rispose Pie, tacendo subito in modo che Gentle potesse condividere la sua allegria.

Gentle era rimasto in quella cella ora dopo ora incapace di emettere un qualsiasi gemito, eppure non aveva mai sentito un silenzio così. Tutto il manicomio era in ascolto, dalle profondità dove Padre Athanasius intrecciava corone di punte e spine, all'ufficio di N'ashap dove si trovava il tappeto con le macchie indelebili del sangue sparso dal suo naso. Tutte le anime deste di quel luogo avevano ascoltato il loro amplesso.

"Che silenzio," ripeté il mystif.

Mentre lo diceva, la quiete fu rotta dal grido di qualcuno in una cella, un grido di rabbia per la frustrazione e per la solitudine che si protrasse per tutta la notte, quasi volesse mondare la pietra grigia della gioia che l'aveva momentaneamente colorata.

 

27

 

I

 

Se costretta, Jude avrebbe potuto fare il nome di una decina di uomini - amanti, corteggiatori, schiavi - disposti a offrirle qualsiasi cosa per avere in cambio il suo amore. A molti si era legata proprio per la loro liberalità. Ma le sue richieste, alcune veramente stravaganti, non erano niente in confronto a quello che aveva domandato a Oscar Godolphin: mostrami Yzordderrex, gli aveva detto, e aveva visto il suo viso assumere un'espressione trepidante. Oscar non aveva rifiutato immediatamente. Se lo avesse fatto, avrebbe distrutto in un istante l'amore che stava crescendo tra loro due e non si sarebbe mai perdonato una simile perdita. Ascoltò quella richiesta, poi fece finta di nulla sperando, indubbiamente, che lei avrebbe lasciato cadere l'argomento. Non fu così. Lo sbocciare di una relazione fisica tra di loro l'aveva guarita da quello strano senso di passività di cui aveva sofferto da quando lo aveva incontrato. Lo aveva visto ferito. Lo aveva visto vergognarsi di aver perso il controllo. L'aveva visto fare all'amore, tenero e dolcemente perverso. Sebbene i sentimenti per lui fossero ancora saldi, quella nuova prospettiva aveva strappato dai suoi occhi il velo dell'accettazione incondizionata. Accorgendosi adesso del desiderio che suscitava in lui - e che Oscar aveva manifestato nei giorni successivi a quel loro primo incontro - ritornò la vecchia Judith di una volta, sicura e senza paure, che stava a guardare da dietro il sorriso; guardare e aspettare, sapendo che la devozione del suo uomo la rendeva più forte di giorno in giorno. La tensione tra questi due io - quanto rimaneva dell'amante sottomessa che la presenza di Oscar aveva riportato a galla, e la donna caparbia e decisa che era stata (e che era tornata a essere) - allontanò definitivamente da lei gli ultimi strascichi della sua indeterminatezza, e il desiderio di andare a zonzo per i Domini si ripresentò più intenso che mai. Nei giorni che seguirono non mancò di ricordare a Oscar la sua promessa e lui, le prime due volte, evitò con una scusa gentile quanto pretestuosa di approfondire l'argomento. La terza volta, l'insistenza di Judith provocò come risposta un sospiro e uno sguardo rivolto al cielo.

"Perché è così importante per te?" le chiese. "Yzordderrex è un cesso di posto pieno di gente. Le poche persone per bene che ci abitano non desiderano altro che venire in Inghilterra."

"Una settimana fa dicevi che avresti voluto sparire là per sempre. Ma non potevi, hai detto, perché ti sarebbe mancato il cricket."

"Hai una memoria di ferro."

"Pendo dalle tue labbra," replicò Judith, non senza un po' di risentimento.

"Bene, la situazione è cambiata. Fra poco ci sarà una rivoluzione. Se andassimo adesso, probabilmente ci giustizierebbero senza neanche un processo."

"Ci sei andato e ne sei tornato già altre volte in passato," continuò Judith. "Come centinaia di altre persone, non è vero? Non sei l'unico. Questo è quel che fanno i cultori della magia: passare tra i Domini." Oscar non rispose. "Voglio vedere Yzordderrex, Oscar," concluse Judith. "E se non mi ci porti tu, troverò un altro mago disposto a guidarmici."

"Non dirlo neanche per scherzo."

"No, davvero," aggiunse Judith in tono di sfida. "Non sei l'unico a conoscere la strada."

"Giusto."

"Ce ne sono altri. E li troverò, se ci sarò costretta."

"Sono tutti pazzi," disse lui. "O morti."

"Uccisi?" chiese la donna, anche se la parola le uscì di bocca prima che si rendesse conto di ciò che significava.

L'espressione di Oscar (o piuttosto l'assenza completa di espressione: la voluta vacuità) bastò a confermare i suoi sospetti. I corpi che aveva visto al telegiornale, mentre venivano strappati a forza ai loro giochi, non erano quelli di hippy dissoluti o di adoratori di Satana con la fissazione del sesso. Quei corpi appartenevano a persone che possedevano il vero potere; uomini e donne che forse avevano camminato dove lei avrebbe voluto camminare; nell'Imagica.

"Chi è che fa questo, Oscar? Qualcuno che conosci, vero?"

Oscar si alzò e le si avvicinò. Si mosse così velocemente che Judith per un attimo pensò volesse picchiarla; invece, le si inginocchiò di fronte, le prese le mani e le strinse, fissandola negli occhi con un'intensità quasi ipnotica.

"Ascoltami con attenzione," le disse. "Ho determinati doveri familiari che vorrei, sa Iddio quanto, non avere. Mi chiedono cose che preferirei addirittura non sentire se potessi..."

"C'è di mezzo la Torre, vero?"

"Preferirei non parlarne."

"Ne stiamo già parlando, Oscar."

"È una questione privata di estrema delicatezza. Ho a che fare con individui che praticamente non hanno senso morale. Se venissero a sapere che ti ho detto anche tanto così, entrambe le nostre vite sarebbero in grave pericolo. Te ne prego, non fare una parola con nessuno su questo argomento. Non avrei dovuto portarti alla Torre."

Se quegli individui erano pericolosi anche solo la metà di quanto pensava Oscar, rifletté Judith, allora chissà come avrebbero reagito se avessero saputo che ella conosceva ben altri segreti della Torre.

"Promettimi che lascerai perdere..." continuò l'uomo.

"Voglio vedere Yzordderrex, Oscar."

"Promettimelo. Non parleremo più della Torre né in questa casa né fuori. Dillo, Judith."

"Va bene. Non farò parola della Torre."

"Né in questa casa..."

"...né fuori. Ma, Oscar..."

"Sì, cara?"

"Voglio comunque vedere Yzordderrex."

 

II

 

Il giorno dopo questa discussione Judith si recò a Highgate. Pioveva e, non riuscendo a trovare un taxi libero, decise di prendere la metropolitana. Fu un errore. Non le era mai piaciuto viaggiare in metropolitana anche quando non c'era troppo affollamento. Soffriva di una latente claustrofobia e, inoltre, s'era ricordata che due delle vittime di quella furia omicida erano morte in quei tunnel: una era stata spinta sotto a un treno affollato che arrivava alla stazione di Piccadilly, l'altra era stata accoltellata a morte a mezzanotte in qualche stazione della linea Jubilee. La metropolitana, quindi, non era il mezzo più sicuro per viaggiare per chi avesse anche solo un vago sospetto dei prodigi seminascosti del mondo. E Judith era una di quelle poche persone. Con un respiro di sollievo uscì alla stazione Archway (le nuvole si erano diradate) e si diresse verso l'Highgate Hill a piedi. Non ebbe difficoltà a trovare la Torre, sebbene l'aspetto anonimo della costruzione e lo scudo degli alberi in pieno rigoglio riducessero notevolmente le probabilità che qualcuno guardasse in quella direzione.

A dispetto degli ammonimenti minacciosi di Oscar, Judith non riusciva a trovare niente di tanto spaventoso in quel luogo: il sole primaverile era sufficientemente tiepido da permetterle di sfilarsi la giacca, mentre sull'erba saltellavano passerotti indaffarati a beccare i vermicelli che erano venuti fuori con la pioggia. Scrutò le finestre in cerca di qualche segno di presenza, ma non vide nulla. Evitò la porta principale perché notò una telecamera appesa alla scalinata. Camminò lungo il fianco dell'edificio dove non c'erano muri o filo spinato a sbarrarle il passo. I proprietari erano evidentemente convinti che la difesa migliore dell'edificio fosse proprio la sua totale mancanza di personalità, e che quanto meno avessero osteggiato i curiosi, tanto meno ne avrebbero attirati.

Quasi tutte le finestre erano chiuse e quelle poche aperte erano di camere vuote. Fece un giro completo attorno alla Torre cercando un'altra porta, ma non la trovò.

Ritornando sul lato principale, cercò di immaginare i passaggi sotterranei che si trovavano proprio sotto i suoi piedi - i libri accatastati nell'oscurità e l'anima imprigionata e avvolta in un'oscurità ancora più profonda - sperando che la sua mente potesse andare là dove il suo corpo non poteva. Ma anche questo esercizio non le fu di aiuto. Il mondo reale era implacabile: non avrebbe smosso nemmeno una particella di terreno per permetterle di passare. Scoraggiata, Judith fece un altro giro intorno alla Torre e poi decise di lasciar perdere. Forse poteva tornarci di notte, pensava, quando la solidità del reale non avrebbe pesato tanto brutalmente sui suoi sensi. Oppure avrebbe potuto cercare di fare un altro viaggio sotto l'influsso dell'occhio blu, anche se quest'ultima eventualità la rendeva nervosa. Non capiva fino in fondo il meccanismo grazie al quale l'occhio le permetteva simili voli, sicché aveva paura ad affidarsi totalmente al suo potere. Lo faceva già abbastanza con Oscar.

Si rimise la giacca e si allontanò dalla Torre. A giudicare dall'assenza di circolazione automobilistica sulla Hornsey Lane, l'Highgate Hill - che era congestionata dal traffico - doveva essere ancora bloccata, impedendo agli automobilisti di muoversi in quella direzione. Ma la strada, solitamente immersa nello strepitio dei veicoli, non era del tutto deserta. Dietro di sé udiva dei passi; poi una voce le chiese: "Chi sei?"

Judith si voltò, credendo che la domanda non fosse rivolta a lei, ma poi capì che chi le aveva fatto la domanda - una donna sui sessant'anni, vestita malamente e con un'aria malaticcia - e lei stessa erano le uniche persone su quel marciapiede. Lo sguardo della donna era fisso su di lei con un'intensità quasi maniacale. La domanda era uscita da una bocca che esibiva un'asimmetria accentuata e non riusciva a trattenere la bava: probabilmente chi parlava aveva subito in passato un infarto.

"Chi sei?"

Già abbastanza irritata per non essere riuscita a entrare nella Torre, Judith decise che non era proprio il caso di assecondare la matta del quartiere, e stava per girare sui tacchi e andarsene quando la donna disse: "Non sai che ti colpiranno?"

"Chi?"

"La gente della Torre. La Tabula Rasa. Che cosa stavi cercando?"

"Niente."

"Eri molto intenta per essere una che non cerca niente."

"E lei? È una specie di spia?"

La donna emise un suono incomprensibile che Judith interpretò come una risata.

"Non sanno nemmeno che sono viva," rispose la donna. Poi, per la terza volta: "Chi sei?"

"Mi chiamo Judith."

"Io sono Clara Leash," disse la donna. Lanciò uno sguardo verso la Torre. "Va' avanti," le ordinò. "C'è una chiesa a metà della collina. Ci incontreremo là."

"Che cosa significa tutto questo?"

"Alla chiesa, non qui."

Detto questo voltò le spalle a Judith e si allontanò. Il fatto che fosse così agitata avrebbe dovuto dissuadere Judith dal seguirla. Ma due parole in quel breve dialogo la convinsero invece ad andare alla chiesa ad aspettarla per sentire che cosa Clara Leash aveva da dirle. Quelle parole erano "Tabula Rasa". Non le aveva più sentite dopo quell'ultima conversazione con Charlie alla Proprietà, quando le aveva detto come avesse rinunciato alla qualifica di membro in favore di Oscar. Le aveva spiegato parecchie cose, allora, ma tutto ciò che le aveva riferito era sprofondato nei meandri della sua mente, cancellato dalla violenza e dalle rivelazioni che erano seguite. Ora cercava di scavare nella memoria per riportare alla luce ciò che Charlie le aveva detto sull'organizzazione. Qualcosa riguardo al suolo infetto d'Inghilterra; ma infetto da cosa? Charlie le aveva dato una risposta evasiva. Adesso comprendeva che cosa fosse quella infezione: la magia. In quella mite Torre le vite degli uomini e delle donne i cui corpi erano stati ritrovati in fosse poco profonde o raschiati via dai binari della Piccadilly Line, erano state passate al vaglio e giudicate corrotte. Non c'era da meravigliarsi che Oscar dimagrisse a vista d'occhio e piangesse nel sonno! Era membro di una Società formatasi con l'espressa intenzione di sradicare un seconda società più piccola della quale faceva pure parte. Nonostante il suo potere, Oscar era schiavo di due padroni: della magia e dei suoi nemici.

Adesso era suo dovere aiutarlo, con qualsiasi mezzo. Era la sua amante e, senza il suo aiuto, probabilmente Oscar sarebbe rimasto schiacciato fra imperativi contrastanti. Inoltre, egli era il suo biglietto per Yzordderrex e senza di lui Judith non avrebbe mai potuto vedere le glorie dell'Imagica. Avevano bisogno l'uno dell'altra, vivi e sani di mente.

Aspettò alla chiesa mezz'ora prima che Clara Leash ricomparisse, visibilmente stizzita.

"Non fuori, dentro," disse la donna.

Entrarono in quell'edificio tetro e si sedettero vicino all'altare in modo da non essere udite dai tre fedeli pomeridiani che stavano recitando le preghiere in fondo alla chiesa. Non era il luogo ideale per condurre una conversazione, anche bisbigliata; il sibilo delle voci si udiva comunque e, pur se era difficile afferrare il senso delle parole, la loro eco rimbalzava sulle pareti spoglie. E poi non c'era confidenza tra di loro. Per difendersi dallo sguardo di Clara, per tutta la prima metà della conversazione Judith le voltò quasi le spalle; si girò a guardarla in volto solo quando, rinunciando ai giri di parole, si sentì sicura quanto bastava per fare le domande che più le premevano.

"Che cosa sai della Tabula Rasa?"

"Tutto ciò che c'è da sapere," rispose Clara. "Sono stata membro di quella Società per molti anni."

"Ma loro pensano che tu sia morta?"

"Non che sbaglino di molto. Non mi rimangono che pochi mesi di vita, e proprio per questo è importante che io riferisca a qualcuno quello che so..."

"A me?"

"Dipende," rispose Clara. "Prima voglio sapere che cosa facevi alla Torre."

"Cercavo un modo per entrarvi."

"Sei mai stata là dentro?"

"Sì e no."

"Cosa vuol dire?"

"La mia mente c'è stata, ma il mio corpo no," spiegò Judith aspettandosi di udire l'orrida risata di Clara in risposta. La donna, invece, disse:

"È successo la notte del trentun dicembre."

"Come diavolo fai a saperlo?"

Clara pose la mano sul viso di Judith. Aveva le dita gelate. "Prima devi sapere come me ne sono andata dalla Tabula Rasa."

Le raccontò la storia senza tanti fronzoli, ma le ci volle ugualmente del tempo, dato che la maggior parte di quanto diceva richiedeva delle spiegazioni che consentissero a Judith di comprenderne sino in fondo il significato. Clara, come Oscar, discendeva da uno dei membri fondatori della Società ed era cresciuta credendo fermamente nei suoi princìpi: l'Inghilterra, infettata dalla magia, anzi quasi distrutta da essa, doveva essere tenuta al riparo da qualsiasi culto o individuo che avesse cercato di tramandare alle nuove generazioni le sue pratiche corrotte. Quando Judith le chiese come si era arrivati a quella distruzione quasi totale, per tutta risposta ottenne un'altra storia. Duecento anni prima, in estate, spiegò Clara, si era tentato di compiere un rito che era tragicamente fallito. L'intenzione era di riconciliare la realtà della terra con quella di altre quattro dimensioni.

"I Domini," disse Judith abbassando ulteriormente il tono della sua voce già ridotto a un bisbiglio.

"Puoi dirlo forte," replicò Clara. "Domini! Domini!" Aveva usato un tono di voce normale, ma dopo tutto quel tempo passato a bisbigliare sembrò incredibilmente forte. "È stato un segreto per troppo tempo," aggiunse. "E questo non fa che aumentare la forza del nemico."

"Chi è il nemico?"

"Ce ne sono tanti," rispose Clara. "In questo Dominio, la Tabula Rasa e i suoi servi. E sono tanti, credimi, anche in alto loco."

"Come?"

"Non c'è niente di strano, quando i membri discendono da gente che creava i re. E, se si è perduto il potere, lo si può comprare attraverso la democrazia. È sempre andata così."

"E negli altri Domini?"

"Riuscire ad avere informazioni è più difficile, specialmente ora. Conoscevo due donne che passavano regolarmente tra questo e i Domini Riconciliati. Una di loro è stata trovata morta una settimana fa, l'altra è sparita. Probabilmente anche lei è stata uccisa..."

"... dalla Tabula Rasa."

"Vedo che sai molte cose. Da chi le hai apprese?"

Judith sapeva che Clara le avrebbe posto quella domanda, prima o poi, e per tutto il tempo aveva cercato di decidere che cosa avrebbe risposto. La fiducia di Judith in Clara Leash aumentava di minuto in minuto, ma non sarebbe stato troppo rischioso rivelare a una donna - da lei scambiata per una barbona soltanto due ore prima - un segreto che avrebbe portato Oscar a morte certa, se quelli della Tabula Rasa ne fossero stati informati?

"Non ti posso dire da chi l'ho saputo," rispose infine. "Questa persona è ora in pericolo."

"E tu non ti fidi di me." Sollevò una mano per interrompere qualsiasi tentativo di protesta. "Non prendermi in giro!" aggiunse. "Non ti fidi di me; e come potrei biasimarti? Ma... permettimi una domanda: l'hai saputo da un uomo?"

"Sì, perché?"

"Uomini, Judith. I distruttori."

"Ehi, aspetta un momento..."

"Un tempo, nei Domini, vivevano le Dee. Forze che presero la parte del nostro sesso nel dramma cosmico. Sono tutte morte, Judith. E non di vecchiaia. Sono state sistematicamente eliminate dal nemico."

"Ma gli uomini comuni non uccidono le Dee."

"Gli uomini comuni sono al servizio degli uomini straordinari. Gli uomini straordinari ricevono le visioni dagli Dei. E gli Dei uccidono le Dee."

"E troppo semplice. Sembra una lezioncina scolastica."

"Imparala, allora. E, se ci riesci, provami il contrario. Mi piacerebbe davvero. Mi piacerebbe scoprire che le Dee si sono soltanto nascoste da qualche parte..."

"Come la donna sotto la Torre?"

Per la prima volta dall'inizio del dialogo, Clara restò senza parole. Esterrefatta, lasciò che fosse Jude a riempire il vuoto di quel silenzio di stupore.

"Quando ti ho detto che con la mente sono stata nella Torre, non ti ho detto tutta la verità," disse Jude. "Sono stata solo sotto la Torre. C'è una cantina lì, che è come un labirinto. E piena di libri. E dietro a una delle pareti c'è una donna. All'inizio pensavo fosse morta, ma non lo è. Forse è vicina a morire, ma riesce comunque a sopravvivere."

Clara rimase visibilmente colpita dal racconto.

"Pensavo di essere l'unica a sapere che fosse lì," soggiunse.

"Ma arriviamo al punto: sai chi è?"

"Ho un'idea di chi sia," rispose Clara, e riprese a raccontare da dove si era interrotta: la storia di come era riuscita a lasciare la Tabula Rasa.

La biblioteca nel sotterraneo della Torre, spiegò, era la raccolta più completa di testi sulle scienze occulte - e in particolare delle leggende e delle tradizioni dell'Imagica - che esistesse al mondo. Era stata messa insieme dagli uomini che avevano fondato la Società, e gestita da Roxborough e Godolphin, i quali dovevano tener lontano dalle mani e dalle menti degli inglesi innocenti la vergogna dei ricordi dell'Imagica; ma, anziché catalogare la collezione redigendo un indice dei libri proibiti, per diverse generazioni la Tabula Rasa l'aveva semplicemente lasciata ammuffire.

"Mi sono assunta il compito di metterla in ordine. Che tu lo creda o no, in passato ero una donna molto ordinata. È una caratteristica che ho ereditato da mio padre che era militare. All'inizio, mi controllavano altri due membri della Società. Così vuole la legge. Nessun membro della Società può entrare nella biblioteca da solo, e se qualcuno veniva ritenuto eccessivamente interessato o in qualche modo influenzato dai volumi, poteva essere giudicato e condannato a morte. Non penso che sia mai successo. La metà dei libri è in latino... e chi è che sa più il latino? L'altra metà - l'hai visto tu stessa - è completamente ammuffita, come tutti noi del resto. Ma io volevo fare un po' d'ordine, proprio come sarebbe piaciuto a papà. Tutto pulito e in ordine. Naturalmente i miei compagni si stufarono presto di questa mia ossessione e mi lasciarono sola a eseguire il lavoro. Improvvisamente, una notte, sentii qualcosa... o qualcuno... che tirava i miei pensieri, strappandomeli dalla testa come fossero capelli. All'inizio ho pensato ovviamente che fossero i libri. Pensavo che le parole avessero un potere su di me. Cercai di andarmene, ma ti confesso che in realtà non lo volevo. Ero stata la bambina repressa del papà per cinquant'anni, ed ero vicina al crollo. Anche Celestine lo sapeva...

"Celestine è la donna dietro la parete?"

"Credo sia lei, sì."

"Ma non sai chi sia?"

"Un attimo e ci arrivo," la interruppe Clara. "La casa di Roxborough era situata sul terreno dove ora sorge la Torre. La cantina è la stessa cantina di quella casa. Celestine era - e lo è ancora - prigioniera di Roxborough. L'ha murata là dentro perché non ha avuto il coraggio di ucciderla. Lei aveva visto la faccia di Hapexamendios, il Dio degli Dei. Era pazza, ma era stata toccata dalla divinità e per questo nemmeno Roxborough si azzardava a torcerle un capello."

"Come fai a sapere tutto questo?"

"Roxborough scrisse una confessione pochi giorni prima di morire. Sapeva, infatti, che la donna che lui aveva rinchiuso laggiù gli sarebbe sopravvissuta per secoli, e io penso che sapesse anche che prima o poi qualcuno l'avrebbe trovata. Perciò, quella confessione era anche un ammonimento nei confronti del poveretto che l'avesse scoperta, un ammonimento a non toccarla. Seppelliscila ancora, diceva, lo ricordo molto bene, seppelliscila negli abissi più profondi che la tua mente possa mai trovare..."

"Dove hai trovato la confessione?"

"Nella parete, quella notte che ero da sola. Sono convinta che sia stata Celestine a farmela trovare, strappandomi dalla testa alcuni pensieri e mettendocene dentro altri. Ma deve aver tirato troppo forte. La mia mente cedette. Ebbi un infarto. Mi trovarono solo tre giorni dopo."

"È orribile..."

"La mia sofferenza non può essere nemmeno paragonata alla sua. Roxborough l'aveva trovata a Londra, o forse erano state le sue spie a farlo, e lui sapeva che era una creatura dotata di potere. Credo che Roxborough ne fosse anche più consapevole di lei. Ma aveva visto cose cui nessun essere umano aveva mai assistito. Era stata cacciata dal Quinto Dominio, e l'avevano scortata fino all'Imagica portandola al cospetto di Hapexamendios."

"Perché?"

"Qui la cosa si fa più complessa. Quando Roxborough la interrogò, lei gli rispose che era stata rimandata al Quinto Dominio incinta."

"Aspettava un figlio dal Dio?"

"Questo è quanto disse a Roxborough."

"Poteva essersi inventata tutto di sana pianta per difendersi, nell'eventualità che lui volesse farle del male."

"Non credo che le avrebbe fatto del male. Penso che ne fosse mezzo innamorato. Nella confessione disse che si sentiva come il suo amico Godolphin. Sono stato stregato dall'occhio di una donna, scrisse."

"È una frase strana," disse tra sé Jude pensando al ritratto. A quel suo sguardo, alla sua autorevolezza.

"Godolphin morì tormentando un'amante che aveva amato e anche perduto, proclamando d'essere stato rovinato da lei. Gli uomini sono sempre innocenti, come vedi. Vittime della perversità femminile. Oserei dire che Roxborough si sia persuaso che rinchiudere Celestine sia stato un atto di amore. Così avrebbe potuto tenerla sotto il suo tallone per sempre."

"Che cosa ne è stato del bambino?" chiese Judith.

"Forse ce lo può dire lei stessa," rispose Clara.

"Allora dobbiamo tirarla fuori di là."

"Esatto."

"Hai qualche idea di come fare?"

"Non ancora," disse Clara. "Cominciavo a disperare, poi sei apparsa tu. E, insieme, noi due dovremmo riuscire a escogitare un modo per salvarla."

Si stava facendo tardi e Jude non voleva che si notasse troppo la sua assenza, perciò studiarono un piano molto frettolosamente. Un'altra visita alla Torre sarebbe bastata, questa volta però - propose Clara - con il favore delle tenebre.

"Stasera," suggerì a Judith.

"No, è troppo presto. Lasciami un giorno per trovare una scusa plausibile per star fuori la notte."

"Chi è il cane da guardia?" chiese Clara.

"Solo un uomo."

"Sospettoso?"

"Qualche volta."

"Bene, Celestine ha aspettato così a lungo che qualcuno la salvasse... potrà aspettare altre ventiquattro ore. Ma per favore, non di più. Sono io che non ho più molto tempo."

Jude pose il braccio intorno a Clara, e quello fu il primo contatto tra di loro dal momento in cui la donna le aveva sfiorato le guance con le dita gelide. "Non stai morendo," disse.

"Oh, sì, invece. Non è una grande perdita. Ma prima di andarmene voglio vedere il viso di Celestine."

"E ci riusciremo," concluse Judith. "Se non domani notte, subito dopo."

 

III

 

Non credeva a quello che Clara le aveva detto sugli uomini e quindi su Oscar. Oscar non era un distruttore di Dee, né di sua propria mano né per procura. Dowd, invece, era tutt'altra cosa. Sebbene il suo aspetto esteriore risultasse accettabile - addirittura troppo perfetto, talvolta - lei non avrebbe mai potuto dimenticare l'indifferenza con cui si era liberato dei corpi di quegli evacuatori e come poi si fosse scaldato le mani sul loro rogo quasi che sul fuoco ci fosse legna e non ossa umane. E, colmo della cattiva sorte, quando rientrò Dowd era già a casa, al contrario di Oscar, sicché fu obbligata a rispondere alle sue domande per non destare sospetti. Quando Dowd le chiese che cosa avesse fatto durante il giorno, Jude rispose di essere andata a fare una lunga passeggiata sull'argine. Allora Dowd le chiese se la metropolitana era affollata, sebbene lei non gli avesse detto di averla presa. Jude rispose di sì. Prenda un taxi la prossima volta, le disse Dowd. O, ancora meglio, mi chieda di accompagnarla. Sono certo che il signor Godolphin desidera che lei viaggi in tutta comodità, aggiunse. Judith lo ringraziò per la gentilezza. Ha intenzione di andare da qualche altra parte? le chiese. Judith aveva già preparato una scusa per il giorno dopo, ma i modi di Dowd riuscivano sempre a metterla in imbarazzo, e qualsiasi bugia avesse pronunciato in quel momento sarebbe stata scoperta all'istante. Per cui disse che non sapeva e lasciò cadere l'argomento.

Oscar non tornò a casa che a notte fonda, si infilò nel letto accanto a lei tanto dolcemente quanto il proprio corpo gli permetteva. Judith finse di svegliarsi. Oscar mormorò qualche parola di scusa per averla destata e poi qualche frase d'amore. Fingendo un tono assonnato, lei gli disse che la sera dopo sarebbe andata a trovare Clem: un suo amico, non si arrabbiava, vero? Oscar rispose che poteva fare quello che voleva, purché tenesse quel suo corpo stupendo soltanto per lui. La baciò sulla spalla e sul collo e poi si addormentò.

 

La sera dopo aveva appuntamento con Clara alle otto, fuori dalla chiesa, ma uscì con due ore di anticipo per passare prima dal suo vecchio appartamento. Non sapeva quale posto occupasse l'occhio blu di pietra in quella storia, ma la notte prima aveva deciso che l'avrebbe portato con sé quando avessero tentato di liberare Celestine.

L'appartamento era freddo e come abbandonato, e lei vi rimase solo pochi minuti; prese l'occhio dal suo guardaroba, poi guardò in fretta la posta - per la maggior parte insignificante - che era arrivata dall'ultima volta che era stata lì. Dopo di che si incamminò verso Highgate e, seguendo il consiglio di Dowd, prese un taxi. Arrivò alla chiesa con venticinque minuti di anticipo, ma Clara era già lì.

"Hai mangiato, ragazza mia?" le chiese Clara. Jude rispose affermativamente. "Bene," disse la donna. "Avremo bisogno di tutte le nostre forze, stanotte."

"Prima di procedere," la interruppe Jude, "voglio farti vedere una cosa. Non so se ci potrà essere d'aiuto, ma penso che tu la debba vedere." Estrasse il pacchetto dalla borsa. "Ricordi quando hai detto che Celestine ti tirava fuori i pensieri dalla testa?"

"Certo."

Jude cominciò a scartare l'occhio con un tremito impercettibile nelle mani. Tre mesi o forse più erano passati da quando lo aveva nascosto con una cura superstiziosa, ma ricordava perfettamente quali erano gli effetti che provocava, e si aspettava quasi che ora ricominciasse a esercitare qualche potere. Invece, non successe nulla. L'occhio era posato tra le pieghe della carta e sembrava così inoffensivo che fu quasi imbarazzata per aver dato al fatto di mostrarglielo tutta quell'importanza. Clara, però, lo fissava con un sorriso sulle labbra.

"Dove lo hai preso?"

"Preferirei non dirtelo."

"Non è questo il momento per tenersi dei segreti," disse in tono secco Clara. "Come sei arrivata ad averlo?"

"E stato dato a mio marito. Al mio ex marito."

"Chi glielo ha dato?"

"Suo fratello."

"E chi è suo fratello?"

Judith respirò a fondo, senza sapere se ciò che avrebbe buttato fuori insieme al fiato sarebbe stato bugia o verità.

"Si chiama Oscar Godolphin," disse.

A questa risposta Clara si scostò fisicamente da Judith, come se quel nome fosse il segno di un contagio.

"Tu conosci Oscar Godolphin?" le chiese in tono sgomento.

"Sì."

"È lui il cane da guardia?"

"Sì."

"Copri quella roba," le ordinò, evitando di guardare l'occhio. "Coprilo e mettilo via." Volse le spalle a Judith mettendosi le mani nodose nei capelli. "Tu e Godolphin?" disse, ripetendolo a se stessa. "Che cosa significa? Che cosa significa?"

"Non significa nulla," le rispose Jude. "Quello che provo per lui e quello che ora stiamo facendo noi due, sono cose completamente differenti."

"Non essere ingenua," replicò Clara rivolgendo lo sguardo verso di lei. "Godolphin è un membro della Tabula Rasa ed è un uomo. Tu e Celestine siete due donne, sue prigioniere..."

"Io non sono sua prigioniera," rispose Jude furiosa per la commiserazione che traspariva dalle parole di Clara. "Faccio quello che voglio e quando voglio."

"Purché tu non sfidi la storia," soggiunse Clara. "Nel qual caso ti renderai conto di quanto lui ti dòmini." Si riavvicinò a Judith abbassando la voce fino a ridurla a un sussurro dolente. "Cerca di capire," disse. "Non puoi salvare Celestine e al tempo stesso stare con lui. Stai per erodere le fondamenta - letteralmente le fondamenta - della sua famiglia, della sua fede e quando lo scoprirà - e succederà non appena la Tabula Rasa inizierà a cadere a pezzi - qualsiasi cosa ci sia tra di voi non varrà più nulla. Noi non siamo un sesso diverso, Judith, siamo un'altra specie. Quello che c'è nel nostro corpo e nelle nostre menti non è nemmeno lontanamente paragonabile a ciò che c'è nelle loro. I nostri Inferni sono diversi. Così come i nostri Paradisi. Siamo nemici, e tu non puoi stare da entrambe le parti in questa guerra."

"Non è una guerra," incalzò Jude. "Se fosse una guerra sarei in collera con qualcuno e invece non sono mai stata così calma come ora."

"Valuteremo la tua calma quando vedrai con i tuoi occhi come stanno le cose."

Jude fece un altro profondo respiro. "Forse dovremmo smettere di parlare e fare ciò per cui siamo venute," soggiunse. Clara le lanciò uno sguardo bieco. "Credo che l'espressione di cui sei in cerca è 'stronza cocciuta'," suggerì Jude.

"Non ho mai avuto fiducia nelle persone passive," disse Clara lasciando trasparire una punta d'ammirazione.

"Me ne ricorderò."

 

La Torre era immersa nell'oscurità e gli alberi impedivano alla luce della strada di penetrare nel cortile, che era buio come anche il sentiero che fiancheggiava l'edificio. Clara doveva essere stata lì molte altre volte di notte, data la speditezza con cui procedeva, mentre Judith si trascinava inciampando nei rovi e pungendosi con le ortiche che alla luce del giorno le era stato così facile evitare. Quando giunse sul retro della Torre, i suoi occhi ormai si erano abituati all'oscurità e vide Clara a una ventina di metri dall'edificio intenta a scrutare il terreno.

"Che cosa facciamo qui dietro?" le chiese. "Sappiamo entrambe che c'è un solo modo per entrare."

"Sbarrata e chiusa con catenaccio," disse Clara. "Sto pensando che la cantina deve avere un'altra entrata, qui sotto la torba, foss'anche soltanto un tubo d'aerazione. La prima cosa che dobbiamo fare è trovare l'ubicazione della cella di Celestine."

"Come facciamo?"

"Ci serviremo dell'occhio che ti ha fatto viaggiare," disse Clara. "Su, dammelo..."

"Credevo che fosse troppo contaminato e non si potesse toccare."

"Niente affatto."

"Ma l'hai guardato in un modo..."

"E una preda di guerra, ragazza mia. Ecco che cosa mi ha fatto reagire a quel modo. È un pezzo della storia delle donne che due uomini si sono contesi."

"Sono sicura che Oscar non sa cosa sia," disse pensando, mentre lo difendeva, che probabilmente non era vero.

"Appartiene a un grande tempio..."

"Di sicuro non saccheggia templi," aggiunse Jude, tirando fuori dalla tasca l'oggetto conteso.

"Non ho detto che lo faccia," rispose Clara. "I templi furono distrutti molto tempo prima che nascesse la dinastia dei Godolphin. Be', allora, me lo dai o no?"

Jude scartò l'occhio e lo porse con una riluttanza che non aveva mai provato prima. Adesso non sembrava più così inoffensivo, Emanava una sottile luminescenza, blu e continua, grazie alla quale lei e Clara riuscivano ora a intravedersi nell'oscurità.

I loro sguardi si incontrarono alla luce di quell'occhio che luccicava come lo sguardo di un terzo cospiratore; una donna più saggia di entrambe, la cui presenza, nonostante il rumore sordo del traffico e degli aerei che rombavano tra le nuvole alte, conferiva gravita a quel momento. Jude si ritrovò a pensare a quante donne si erano raccolte attorno a quel bagliore nelle ere precedenti; raccolte in preghiera, o per compiere sacrifici, o per sfuggire ai persecutori. Innumerevoli, di sicuro, ormai morte e dimenticate, ma, in quel breve tempo fuori del tempo, strappate all'anonimato; non chiamate per nome ma almeno riconosciute dalle nuove seguaci. Jude distolse lo sguardo da Clara per fissare l'occhio blu. Il mondo reale attorno a lei le sembrò improvvisamente irrilevante: nel migliore dei casi un gioco di veli, nel peggiore una trappola in cui lo spirito si dibatteva. Non era necessario restare legati alle sue regole. Jude poteva volare al di là di esso con il pensiero. Sollevò lo sguardo per trovare in Clara la conferma che anche lei era pronta ad agire, ma la sua compagna stava guardando in un'altra direzione, verso l'angolo della Torre.

"Che c'è?" domandò Jude seguendo lo sguardo di Clara.

Qualcuno si stava avvicinando a loro nel buio e nel suo passo c'era una nonchalance cui Judith poté dare un solo nome: "Dowd."

"Lo conosci?" le chiese Clara.

"Un po'," rispose Dowd con noncuranza pari all'andatura. "Ma ci sono molte cose che ancora non sa."

Le mani di Clara si allontanarono da Jude, rompendo quell'incantesimo a tre.

"Non ti avvicinare," disse Clara.

Sorprendentemente, Dowd si irrigidì completamente nel punto in cui si trovava, a qualche metro dalle donne. L'occhio emanava luce sufficiente per consentire a Jude di scorgere il suo viso. Qualcosa sembrava muoversi intorno alla sua bocca, come se avesse appena mangiato una manciata di formiche e alcune fossero riuscite a sfuggirgli dalle labbra.

"Mi piacerebbe così tanto uccidervi tutte e due," disse e, mentre pronunciava quelle parole altre bestiole fuoriuscirono dalla bocca e gli si sparsero sulle guance e sul mento. "Ma verrà il momento, Judith. Molto presto. Per ora, m'interessa solo Clara... è Clara, vero?"

"Va' all'inferno, Dowd," gridò Jude.

"Allontanati da quella vecchia," le ordinò Dowd.

Per tutta risposta Jude afferrò il braccio di Clara.

"Non ti azzardare a farle del male, pezzo di merda," disse.

Una furia che non aveva provato da mesi le cresceva dentro. L'occhio divenne pesante nella sua mano; era pronta a rompergli la testa con quello se si fosse avvicinato ancora.

"Non mi hai sentito, puttanella?" disse Dowd, facendo un passo avanti. "Ti ho detto: vattene!"

Accecata dalla rabbia, Jude si sporse in avanti per affrontarlo e alzò la mano che serrava il pesante oggetto, ma nel momento in cui lasciò il braccio di Clara, Dowd si spostò di lato e lei lo perse di vista. Intuendo di aver fatto esattamente quello che Dowd si aspettava, Jude girò su se stessa per riprendere il braccio di Clara. Ma lui l'aveva preceduta. Udì un grido di orrore e vide Clara che, barcollando, si allontanava dal suo aggressore. Aveva il viso pieno di vermi che l'accecavano. Jude le corse incontro per afferrarla prima che cadesse, ma questa volta Dowd non la schivò, anzi le andò incontro e con un colpo secco le fece cadere la pietra dalle mani. Jude non tentò nemmeno di riprenderla, ma si precipitò a soccorrere Clara. I lamenti della donna erano terribili quanto i brividi che ne scuotevano il corpo.

"Che cosa le hai fatto?" gli urlò.

"Distrutta, tesoro, l'ho distrutta. Lasciala perdere. Non puoi più aiutarla, ora."

Il corpo di Clara era leggero, ma quando le gambe le cedettero, trascinò anche Jude con sé. I suoi lamenti divennero ululati, si portò le mani al viso come per cavarsi gli occhi, perché era lì che i vermi si accanivano nella loro opera tormentatrice. In preda alla disperazione, Jude tentò di cercare a tastoni quelle creature nel buio, ma o erano troppo veloci per le sue dita, oppure erano là dove le sue dita non potevano arrivare. Tutto ciò che poteva fare era pregarlo che le facesse smettere.

"Fermale," gli intimò. "Farò qualsiasi cosa, ma, per favore, falle smettere."

"Sono piccole carogne voraci, vero?" le rispose lui.

S'era accovacciato e osservava l'occhio; la luce blu gli illuminava la faccia, che era una maschera di durezza raggelante. Mentre Jude lo guardava, Dowd raccolse i vermi dalla bocca e li lasciò cadere a terra.

"Mi dispiace, temo che non abbiano orecchie per sentire e che perciò io non possa richiamarli," disse. "Sanno solo come si distrugge. E distruggono qualsiasi cosa eccetto i loro creatori. In questo caso, io. Perciò, se fossi in te, la lascerei perdere, ormai. Sai, non fanno troppe distinzioni."

Jude riportò l'attenzione sulla donna che teneva tra le braccia. Clara aveva smesso di grattarsi gli occhi, e i brividi stavano rallentando.

"Parlami..." la implorò Jude. Si avvicinò al viso di Clara vergognandosi della paura che le aveva trasmesso l'ammonimento di Dowd.

Ma quel corpo non rispondeva più, a meno che non ci fossero parole nei gemiti della moribonda. Jude ascoltò, sperando di captare qualche brandello di senso, ma invano. Sentì un ultimo spasmo percorrere la spina dorsale di Clara, come se qualcosa fosse scattato nella sua testa, poi l'organismo si fermò, morì. Da quando era apparso Dowd erano trascorsi non più di novanta secondi. In quel breve lasso di tempo ogni speranza era stata distrutta. Jude si chiese se Celestine avesse potuto rendersi conto della tragedia che si era appena consumata, una nuova sofferenza da aggiungere alle altre.

"Morta, tesoro," disse Dowd. Jude lasciò cadere il corpo di Clara sull'erba. "Dobbiamo andare," continuò con il solito tono indifferente come se, anziché un cadavere, fossero sul punto di abbandonare un picnic. "Non ti preoccupare di Clara. Raccoglierò quel che è rimasto di lei più tardi."

Sentì i passi di Dowd dietro di sé e si alzò subito, pur di non essere toccata da quelle mani. In alto, il rombo di un altro aereo che passava tra le nuvole. Cercò l'occhio, ma anche quello era stato distrutto.

"Assassino," gli gridò.

 

28

 

I

 

Gentle si era dimenticato della conversazione che aveva avuto con Aping sulla comune passione per la pittura, ma Aping ricordava.

Il giorno dopo il matrimonio tenutosi nella cella di Athanasius, il sergente andò a chiamare Gentle e lo scortò in una stanza all'altro lato dell'edifìcio dove si era allestito lo studio. La stanza aveva numerose finestre e vi entrava molta luce, fatto assai raro in quella regione. Aping aveva raccolto un'invidiabile varietà di materiali durante i mesi che aveva trascorso nell'amministrazione della prigione. I prodotti del suo lavoro erano però degni di un dilettante del tutto privo di ispirazione. I suoi quadri erano disegnati senza talento per la composizione e dipinti senza senso del colore, e il loro unico interesse stava nella palese ossessione che li abitava. Nella stanza si trovavano, gli riferì Aping con orgoglio, centocinquantatré quadri, e il loro soggetto era sempre lo stesso: sua figlia Huzzah. Il solo nominarla aveva provocato nell'emotivo ritrattista un imbarazzo enorme. Ora, nell'atmosfera intima del suo luogo d'ispirazione, gliene poteva spiegare il motivo. Sua figlia era giovane, disse, e la madre era morta; era stato costretto a portarla con sé quando per ordine di Iahmandhas s'era dovuto trasferire nella Culla.

"Avrei potuto lasciarla a L'Himbi," disse Aping. "Ma chissà quali difficoltà avrebbe dovuto affrontare, in quel caso. È solo una bambina."

"Quindi si trova sull'isola?"

"Sì, è sull'isola. Ma durante il giorno non vuole uscire dalla sua camera. Ha paura di essere contagiata dalla pazzia, dice. Le voglio tanto bene. E come puoi vedere è molto bella," affermò, indicando i dipinti.

Gentle dovette credergli sulla parola. "Dov'è ora?" chiese.

"Dove è sempre stata," rispose Aping. "In camera sua. Fa sempre dei sogni strani."

"Capisco come deve sentirsi," continuò Gentle.

"Davvero?" chiese Aping con un tono di voce da cui si intuiva che in realtà non l'aveva chiamato per parlare solo di arte, "Anche tu sogni, allora?"

"Tutti sognano."

"Anche mia moglie diceva così." Aping abbassò la voce. "Lei faceva sogni profetici. Sapeva quando sarebbe morta, ti dico: l'ora esatta della sua morte. Io, invece, non sogno mai e perciò non posso capire quello che prova Huzzah."

"Stai forse cercando di dirmi che invece io potrei?"

"È una faccenda delicata," rispose Aping. "La legge di Yzordderrex proibisce le profezie."

"Non lo sapevo."

"Soprattutto se profezie di donne," continuò Aping. "Questo è il motivo per cui la tengo lontana da tutti. È vero, lei teme la pazzia, ma io ho molta più paura per quello che ha dentro."

"Perché?"

"Temo che possa parlare con qualcuno diverso da me e dire qualcosa di strano: N'ashap allora potrebbe capire che ha le visioni come la madre."

"E questo sarebbe..."

"Disastroso! Rovinerebbe completamente la mia carriera. Non avrei mai dovuto portarla qui." Guardò Gentle. "Ti sto raccontando tutto questo perché siamo entrambi artisti e gli artisti hanno fiducia gli uni negli altri come fratelli, non credi?"

"Giustissimo," confermò Gentle. Si accorse che le grandi mani di Aping tremavano. L'uomo sembrava sull'orlo di un collasso. "Vuoi che parli con tua figlia?" gli chiese Gentle.

"Voglio di più..."

"Dimmi."

"Voglio che la porti con te quando tu e il mystif ve ne andrete. Portala a Yzordderrex."

"Cosa ti fa pensare che andremo là? Come fai a saperlo?"

"Ho le mie spie, e le ha anche N'ashap. Conosciamo i vostri piani più di quanto immaginiate. Portala con te, Zacharias. I genitori di sua madre sono ancora vivi. Si prenderanno cura di lei."

Aping corrugò le labbra. "Da parte mia, se tu la porterai con te, vi aiuterò a lasciare l'isola."

"E se lei non volesse venire?" chiese Gentle.

"Devi convincerla," gli rispose semplicemente Aping, come se sapesse che Gentle era un esperto nell'arte di persuadere le ragazzine a fare ciò che voleva.

 

La natura aveva giocato a Huzzah Aping tre brutti scherzi. Primo: le aveva dato poteri che erano considerati illeciti sotto il regime dell'Autarca; secondo, le aveva dato un padre che, nonostante i buoni sentimenti, si preoccupava più della propria carriera militare che di lei; terzo, le aveva dato un viso che solo un padre avrebbe potuto definire bello. Era una creatura magra e tribolata di nove o dieci anni, con i capelli neri tagliati in modo assai buffo, le labbra minuscole e sottili. Quando, dopo innumerevoli lusinghe, si decise a schiuderle per parlare, emise una sua voce esile e disperata. Solo quando Aping le confidò che il visitatore era l'uomo che era quasi morto cadendo in mare, un qualche interesse sembrò risvegliarsi in lei.

"Sei andato dentro la Culla?"

"Sì," rispose Gentle, avvicinandosi al letto dove la bambina stava seduta, le braccia strette attorno alle ginocchia.

"Hai visto la Signora della Culla?" chiese ancora la bambina.

"Visto chi?" Aping la interruppe, ma Gentle gli fece cenno di tacere. "Visto chi?" ripeté lui stesso.

"Vive nel mare," continuò Huzzah. "È nei miei sogni... e talvolta la sento... ma non l'ho ancora mai vista. Mi piacerebbe vederla."

"Come si chiama?" le chiese Gentle.

"Tishalullé," rispose Huzzah pronunciando tutte le sillabe senza esitazione. "È il suono che fecero le onde quando nacque," spiegò. "Tishalullé."

"È un bellissimo nome."

"Sì, è vero," disse la ragazza in tono grave. "Più bello di Huzzah."

"Anche Huzzah non è male, sai," replicò Gentle. "Al mio paese Huzzah è il suono che fanno le persone quando sono felici."

La ragazzina lo guardò come se l'idea di felicità le fosse assolutamente estranea, cosa che Gentle capiva perfettamente. Ora che poteva osservare Aping in presenza della figlia, riusciva a capire il comportamento contraddittorio dell'uomo nei confronti di lei. Quella bambina lo terrorizzava. I poteri proibiti di cui disponeva lo sconvolgevano perché mettevano a repentaglio la sua reputazione, ma lo ponevano al cospetto di un'entità che lui non riusciva a dominare completamente. L'uomo disegnava di continuo il viso fragile di Huzzah come un atto di devozione, forse perversa, ma anche di esorcismo. Inoltre, quella bambina non era stata baciata da nessun'altra fortuna. I suoi sogni l'avevano confinata in quella cella e l'avevano pervasa di brame oscure.

Era più loro vittima che loro sacerdotessa.

Gentle fece il possibile per ottenere qualche altra informazione su Tishalullé, ma o lei stessa sapeva ben poco o era poco disposta a fornire ulteriori chiarimenti in presenza del padre. Gentle propendeva per l'ultima spiegazione. Comunque, quando si alzò per andarsene, Huzzah gli chiese se sarebbe tornato a farle visita e lui rispose di sì.

 

Trovò Pie nella loro cella, con una guardia alla porta. Il mystif aveva un'espressione torva.

"La vendetta di N'ashap," disse, indicando la guardia. "Credo che abbiamo approfittato fin troppo della sua ospitalità."

Gentle gli riferì la sua conversazione con Aping e l'incontro con Huzzah.

"Così, la legge vieta le profezie, giusto? Non l'avevo mai sentito."

"Il modo in cui parlava della Signora della Culla..."

"Probabilmente sua madre."

"Come fai a dirlo?"

"È terrorizzata e vuole la mamma. Chi la può biasimare? E chi sarebbe la Signora della Culla, se non una madre?"

"Non ci avevo pensato," ammise Gentle. "Pensavo che ci fosse una specie di verità letterale in quello che mi diceva."

"Ne dubito."

"La porteremo con noi o no?"

"Decidi tu, naturalmente, ma io dico assolutamente di no."

"Aping mi ha detto che ci aiuterebbe, se la portassimo con noi."

"Di che aiuto ci può essere, se poi ci carica del peso di una bambina? Ricordati che non ce ne andiamo soli. Dobbiamo già portare con noi Scopique, e Scopique è rinchiuso nella sua cella come noi. N'ashap ha ordinato un'inasprimento delle misure di sicurezza."

"Si vede che gli manchi."

Pie ebbe un'espressione di amarezza. "Sono convinto che i nostri identikit, forniti da lui, siano già in viaggio verso il suo quartier generale. E quando avrà la risposta sarà l'Oethac più felice del mondo perché avrà una coppia di fuorilegge al sicuro, sotto chiave. Non riusciremo a cavarcela, quando saprà chi siamo."

"Allora dobbiamo fuggire prima che lui lo venga a sapere. Ringrazio Dio che il telefono non sia ancora arrivato in questo Dominio."

"Forse l'Autarca lo ha vietato. Quanto meno la gente parla, tanto meno riesce a tessere complotti. Sai, penso che forse dovrei cercare di trovare il modo di parlare con N'ashap. Sono sicuro che riuscirei a convincerlo a darci via libera, se solo potessi parlargli un paio di minuti."

"Non è interessato alla conversazione, Pie," gli disse Gentle. "Preferisce di sicuro tenerti occupata la bocca in altro modo."

"Vuoi lottare tutto da solo per la tua salvezza?" chiese allora Pie. "Usare lo pneuma contro gli uomini di N'ashap?"

Gentle ci pensò su. "Non credo che sarebbe molto intelligente," rispose. "Almeno non finché mi sentirò ancora così debole. Tra un paio di giorni forse saremo in grado di sopraffarli. Non adesso, però."

"Non abbiamo così tanto tempo."

"Me ne rendo conto."

"E anche se l'avessimo, sarebbe meglio evitare uno scontro frontale. Le truppe di N'ashap possono anche sembrare addormentate, ma sono numerose."

"Forse allora dovresti vedere N'ashap per cercare di raddolcirlo un poco. Io intanto parlerò con Aping e starò un po' dietro ai suoi quadri."

"È bravo?"

"Mettiamola così: come pittore, è un bravo padre. Però ha fiducia in me, perché siamo entrambi artisti e palle del genere."

Il mystif si alzò e chiamò la guardia chiedendo un colloquio privato con il Capitano N'ashap. L'uomo brontolò qualcosa e lasciò il proprio posto, non senza prima aver battuto sul catenaccio della porta con il calcio del fucile per accertarsi che fosse ben chiuso. Quel rumore spinse Gentle alla finestra, a guardare fuori all'aria aperta. Un chiarore traspariva dallo strato di nuvole, lasciando supporre che molto probabilmente il sole avrebbe fatto un'apparizione. Pie raggiunse Gentle e gli passò un braccio attorno al collo.

"A che cosa pensi?"

"Ti ricordi la madre di Efreet, a Beatrix?"

"Naturalmente," rispose Pie.

"Mi disse che mi aveva sognato mentre sedevo al suo tavolo, ma non era sicura se io fossi uomo o donna."

"Ti sarai offeso, suppongo."

"Mi sarei offeso una volta," continuò Gentle. "Ma quando me lo disse lei non m'impressionò più di tanto. Dopo poche settimane con te, non sapevo più che cos'era il sesso. Vedi come sei riuscito a corrompermi?"

"È stato un piacere. C'è ancora qualcosa o è tutto?"

"No, c'è dell'altro. Ricordo che iniziò a parlare di Dee. Di come venissero tenute nascoste..."

"E credi che Huzzah possa averne trovata una?"

"Abbiamo visto delle fedeli sulle montagne, no? Perché non potrebbe esserci una divinità? Forse Huzzah aveva cominciato a sognare una madre..."

"... e ha finito col trovare una Dea."

"Sì. Tishalullé, là fuori nella Culla, in attesa di emergere."

"Ti piace l'idea, vero?"

"Delle Dee nascoste? Oh, sì. Forse è per via del donnaiolo che sonnecchia in me. O forse sono come Huzzah: aspetto qualcuno che non ricordo, voglio vedere un viso che mi venga a prendere..."

"Sono già qui io," disse Pie baciando Gentle sul collo. "Sono tutti i visi che desideri vedere."

"Anche una Dea?"

Il suono del catenaccio che veniva tolto li interruppe. La guardia era tornata con la risposta del Capitano N'ashap, il quale aveva accettato la richiesta del mystif.

"Se incontri Aping, gli dici che mi piacerebbe vederlo per parlare di pittura con lui?" disse Gentle a Pie che usciva.

"Sì, certo, lo farò."

Si separarono e Gentle tornò alla finestra. Le nuvole si erano infittite contro il sole e la Culla era calma e vuota sotto la loro coltre. Gentle ripeté il nome che Huzzah gli aveva rivelato, quella parola formata da un'onda che si frangeva.

"Tishalullé."

Il Mare rimase immobile. Le Dee non rispondono a comando. Almeno non al suo.

 

Stava calcolando da quanto tempo Pie se ne era andato decidendo che più o meno doveva essere passata un'ora, quando Aping apparve sulla porta della cella e fece allontanare la guardia dal suo posto per parlargli a quattr'occhi.

"Da quanto tempo sei sotto chiave?" gli chiese.

"Da stamane."

"Ma perché? Il Capitano aveva detto che tu e il mystif eravate come degli ospiti."

"Lo eravamo."

Un moto d'ansia percorse i lineamenti di Aping. "Se siete prigionieri, allora naturalmente la situazione cambia," disse severo.

"Vuoi dire che non potremo più parlare di pittura?"

"Voglio dire che non potrete andarvene."

"E che cosa sarà di tua figlia?"

"Ora non ha importanza."

"La lascerai languire, non è vero? La lascerai morire."

"Non morirà."

"Io credo di sì."

Aping cambiò atteggiamento. "La legge è legge," affermò.

"Capisco," ribatté Gentle pacatamente. "Anche gli artisti devono piegarsi al padrone, suppongo."

"So dove vuoi arrivare," disse Aping. "Non credere che non lo sappia."

"È una bambina, Aping."

"Sì, lo so. Devo occuparmene come meglio posso."

"Perché non le chiedi se sa quando morirà?"

"Oh, Gesù," esclamò Aping ferito nel profondo. Cominciò a scuotere la testa. "Perché doveva capitare proprio a me?"

"Non succederà niente. Tu puoi salvarla."

"Non è così semplice," rispose Aping, lanciando un'occhiata fulminea a Gentle. "Io devo fare il mio dovere." Trasse dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto con il quale si strofinò energicamente la bocca come a togliere qualche rimasuglio di colpa che vi fosse rimasto attaccato e che potesse tradirlo. "Devo pensarci," disse voltandosi verso la porta. "Sembrava così facile. Ma ora... Devo pensare."

La guardia era tornata al suo posto quando la porta venne aperta e Gentle fu costretto a lasciar andare il Sergente senza aver avuto la possibilità di accennare al problema di Scopique.

Quando Pie fece ritorno, ci fu un'altra delusione. N'ashap l'aveva fatto aspettare per due ore e alla fine aveva deciso di non concedergli l'udienza promessa.

"Lo sentivo anche senza vederlo," disse Pie. "Mi è sembrato completamente ubriaco."

"E andata male a tutti e due, allora. Credo che Aping non ci aiuterà più. Se deve scegliere tra la figlia e il dovere, sceglie il dovere."

"Perciò siamo prigionieri."

"Finché non escogitiamo qualcosa."

"Merda."

 

II

 

La notte scese senza che il sole si fosse mostrato. Gli unici suoni che, fino all'alba, si udirono nell'edificio, furono quelli delle guardie che andavano avanti e indietro lungo i corridoi, portavano cibo ai prigionieri, sbattevano e sprangavano le porte. Non una voce di protesta contro il fatto che i privilegi della sera - partite di ossocavallo, recite tratte dai drammi di Quexos e dal Numbubo di Malbaker, opere che ormai tutti conoscevano a memoria - fossero stati improvvisamente aboliti. Sembrava che nessuno osasse lamentarsi, quasi che tutti, nella solitudine della loro cella, fossero disposti a rinunciare a qualsiasi piacere, anche a quello di pregare ad alta voce, pur di non farsi notare.

"N'ashap dev'essere molto pericoloso da ubriaco," disse Pie per spiegarsi quella calma soffocante.

"Forse è un patito delle esecuzioni notturne."

"Scommetto che so chi è il primo della lista."

"Vorrei sentirmi meglio. Se verranno a prènderci ci difenderemo, vero?"

"Naturalmente," disse Pie. "Ma fino ad allora, perché non dormi un poco?"

"Vuoi scherzare, spero."

"Almeno smetti di andare avanti e indietro..."

"Non sono mai stato rinchiuso in vita mia. Non vorrei cominciare a soffrire di claustrofobia."

"Un solo respiro, uno pneuma e potresti essere fuori di qui," gli ricordò Pie.

"Forse dovremmo farlo."

"Se saremo costretti. Ma non lo siamo ancora. Per amor di Dio, sdraiati."

Gentle si sdraiò controvoglia e, sebbene le sue ansie si fossero sdraiate al suo fianco e gli parlassero sottovoce all'orecchio, il suo corpo doveva essere più interessato al riposo che a prestar loro orecchio, perché si addormentò all'istante. Fu svegliato da Pie che sussurrava: "C'è una visita per te."

Gentle si mise seduto. La luce della cella era stata spenta dalla centralina e, se non fosse stato per l'odore dei colori a olio, non avrebbe saputo riconoscere l'identità dell'uomo sulla porta.

"Zacharias, ho bisogno del tuo aiuto."

"Che cosa è successo?"

"Huzzah è... Credo sia diventata pazza. Devi venire con me." La voce gli tremava, come la mano che pose sul braccio di Gentle, "Credo stia per morire," aggiunse.

"Se vengo io, viene anche Pie."

"No, non posso correre questo rischio."

"E io non posso correre il rischio di lasciare il mio amico," ribatté Gentle.

"Ma io non posso farmi scoprire. Se quando la guardia torna non trova nessuno nella cella..."

"Ha ragione," intervenne Pie. "Vai. Aiuta quella bambina."

"È saggio?"

"La compassione è sempre saggia."

"Va bene. Ma rimani sveglio. Non abbiamo ancora detto le nostre preghiere. E per quelle abbiamo bisogno del respiro di entrambi."

"Capisco."

Gentle scivolò nel corridoio con Aping che sussultava a ogni scatto della chiave, mentre chiudeva la porta. Anche Gentle sobbalzava. Il pensiero di lasciare Pie da solo in quella cella lo faceva star male. Ma sembrava non ci fosse altra scelta.

"Forse avremo bisogno di un dottore," disse Gentle mentre percorrevano lunghi corridoi bui. "Direi di far uscire Scopique dalla sua cella."

"È un dottore?"

"Certo che lo è."

"Ma è di te che chiede Huzzah," soggiunse Aping. "Non so perché. Si è svegliata in lacrime e mi ha pregato di venirti a chiamare. È così fredda."

Aping conosceva a memoria i turni e i movimenti delle guardie su ogni piano e in ogni passaggio, sicché i due riuscirono ad arrivare alla stanzetta di Huzzah senza incontrare una sola guardia.

La bambina non era sdraiata sul letto, come Gentle si aspettava, ma rannicchiata sul pavimento, la testa e le mani poggiate contro il muro. In un recipiente posto in mezzo alla stanza bruciava uno stoppino la cui luce non bastava a illuminarle il viso.

Sebbene avesse notato i nuovi arrivati con la coda dell'occhio, Huzzah non si scostò dal muro. Gentle le si avvicinò e si accoccolò a sua volta. Il corpo della ragazzina era percorso da brividi, ma la frangetta le si era attaccata alle sopracciglia per il sudore.

"Che cosa senti?" le chiese Gentle.

"Lei non è più nei miei sogni, signor Zacharias," disse Huzzah pronunciando quel nome con precisione, come se il pronunciare correttamente i nomi delle forze che la circondavano fosse un modo per mantenere un qualche controllo su di esse.

"Dov'è?" chiese Gentle.

"È fuori. La posso sentire. Ascolti anche lei."

Gentle avvicinò l'orecchio al muro. In effetti si sentiva un mormorio nella pietra, sebbene sembrasse più probabile che all'origine di quel rumore ci fosse il generatore del manicomio o il forno, più che la Signora della Culla.

"Riesce a sentire?"

"Sì, sento."

"Vuole entrare," soggiunse Huzzah. "Ha cercato di entrare attraverso i miei sogni, ma non c'è riuscita e ora cerca di entrare attraverso il muro."

"Forse allora... ci dovremmo staccare dal muro," suggerì Gentle, e allungò la mano sulla spalla della ragazza. Huzzah era gelida. "Vieni, ti riporto a letto. Sei gelata."

"Sono stata nel Mare," disse Huzzah lasciando che Gentle la afferrasse per aiutarla ad alzarsi.

Gentle si voltò verso Aping e con le labbra, ma senza voce, formulò il nome di Scopique. Rendendosi conto della debolezza di sua figlia, Aping obbedì senza discutere e uscì dalla porta lasciando Huzzah nelle mani di Gentle. Questi la depose sul letto e l'avvolse con una coperta.

"La Signora della Culla sa che tu sei qui," disse Huzzah.

"Ah sì?"

"Mi ha raccontato che ti aveva quasi affogato, ma che tu non glielo hai permesso."

"Perché voleva affogarmi?"

"Non lo so. Glielo chiederai quando verrà."

"Non hai paura di lei?"

"Oh, no. E tu?"

"Be', se ha cercato di affogarmi..."

"Non ci riproverà se rimani con me. Io le piaccio e quando saprà che anche tu mi piaci, non ti farà alcun male."

"Buono a sapersi," disse Gentle. "Che cosa penserebbe se questa notte ce ne andassimo?"

"No, non possiamo."

"Perché no?"

"Non voglio uscire di qui" disse Huzzah. "Non mi piace."

"Ma ora dormono tutti," incalzò Gentle. "Possiamo andarcene in punta di piedi. Tu, io e i miei amici. Non sarebbe male, che ne dici?" Huzzah sembrava tutt'altro che convinta. "Al tuo papà piacerebbe che ti portassimo a Yzordderrex. Ci sei mai stata?"

"Da piccola."

"Possiamo tornarci."

Huzzah scosse il capo. "La Signora della Culla non ce lo permetterebbe mai," disse.

"Forse sì, se anche tu lo desiderassi. Perché non andiamo su a dare un'occhiata?" disse Gentle.

Huzzah si voltò verso il muro come se si aspettasse che all'improvviso l'onda di Tishalullé irrompesse attraverso il muro. Quando capì che non sarebbe successo nulla, disse: "Yzordderrex è molto lontana, vero?"

"E un bel viaggetto, sì."

"L'ho letto sui miei libri."

"Perché non ti metti addosso qualcosa di più pesante?" chiese Gentle.

I dubbi di Huzzah erano stati fugati dal tacito consenso della Dea, per cui la ragazzina si alzò e andò a prendere qualche indumento dal suo striminzito guardaroba: non più di un paio di grucce appese alla parete di fronte. Gentle approfittò dell'occasione per dare un'occhiata alla piccola pila di libri situata all'estremità del letto. Molti erano libri per bambini, forse ricordi di tempi più felici; uno era un grosso tomo dell'enciclopedia di tale Maybellome, una lettura forse interessante in altre circostanze, se non fosse stato per le pagine scritte troppo fitte per essere leggibili, e per il peso che ne sconsigliava il trasporto. C'era anche un volume che conteneva versi, forse filastrocche, e quello che sembrava essere un romanzo. All'interno, un segnalibro fatto con una strisciolina di carta indicava il punto dove Huzzah era arrivata a leggere. Gentle si mise in tasca il libro, approfittando del fatto che la bambina era girata, per leggerlo lui o perché la bambina potesse continuare a leggerlo, poi sì diresse verso la porta sperando che Aping e Scopique fossero già in vista. Invece non vide nessuno. Huzzah, nel frattempo, aveva finito di vestirsi.

"Sono pronta," disse. "Vogliamo andare? Papà ci troverà."

"Lo spero," rispose Gentle.

Di sicuro, rimanere in quella stanza era una perdita di tempo prezioso. Huzzah gli chiese se poteva poteva tenergli la mano e Gentle rispose di sì. Insieme iniziarono a percorrere i corridoi che in quella semioscurità sembravano tutti paurosamente uguali. Dovevano fermarsi ogni volta che un rumore di stivali sulla pietra li avvertiva della vicinanza delle guardie, e Huzzah era attenta quanto Gentle: per ben due volte evitò che venissero scoperti.

Mentre salivano l'ultima rampa di scale che li avrebbe condotti fuori, all'aria aperta, scoppiò un tumulto, non molto lontano da loro. Si irrigidirono e si nascosero nell'ombra, ma non erano loro la causa di quel trambusto. L'eco della voce di N'ashap arrivava dal corridoio accompagnata da un martellamento spaventoso. Il primo pensiero di Gentle fu per Pie, e prima che il buon senso potesse impedirglielo, uscì allo scoperto e si precipitò verso la fonte del rumore, voltandosi solo per ordinare a Huzzah di rimanere ferma dov'era. La bambina, però, lo stava già seguendo. Gentle riconobbe il passaggio che aveva di fronte. La porta aperta che si trovava a circa duecento metri da lui era quella della cella in cui aveva lasciato Pie. Ed era proprio da lì che proveniva il suono della voce di N'ashap: un flusso ingarbugliato di insulti e di accuse che aveva già fatto accorrere numerose guardie. Gentle respirò a fondo, preparandosi alla lotta che sarebbe stato impossibile evitare.

"Ferma lì," ordinò a Huzzah; poi si lanciò verso la porta aperta.

Tre guardiani, due dei quali Oethac, arrivavano dalla direzione opposta, ma solo uno di essi teneva gli occhi su Gentle. L'uomo gridò un ordine che Gentle non riuscì a capire in mezzo al baccano che faceva N'ashap. Alzò le mani con il palmo aperto, temendo che l'uomo potesse avere il grilletto facile e, allo stesso tempo, rallentò la corsa. Era a circa dieci passi dalla porta, ma le guardie erano più vicine. Ci fu un breve scambio di parole con N'ashap e nel frattempo Gentle era riuscito a dimezzare la distanza tra sé e la porta, ma un secondo ordine - questa volta una chiara intimazione di fermarsi dov'era, sottolineata dalla guardia che gli puntava l'arma al cuore - gli impose di bloccarsi.

Aveva appena avuto il tempo di obbedire all'ordine che N'ashap uscì dalla cella con una mano nei riccioli di Pie e l'altra che teneva la spada, un'asta d'acciaio lucente, puntata al ventre del mystif. Le cicatrici sul testone di N'ashap erano color rosso fiamma a causa dell'alcool che aveva in corpo, mentre il resto della pelle era bianco smorto, quasi terreo. N'ashap vacillò nell'avvicinarsi alla porta: una mancanza d'equilibrio che avrebbe potuto rivelarsi assai pericolosa. Il mystif aveva dato prova a New York di poter sopravvivere a traumi che avrebbero ucciso qualsiasi altro essere umano. Ma la lama di N'ashap era pronta a sventrarlo come un pesce, e difficilmente Pie sarebbe uscito indenne da una simile prova. Gli occhietti del Comandante erano fissi, per quel che potevano, su Gentle.

"Il tuo mystif è diventato tutt'a un tratto estremamente fedele," disse ansando. "Come mai? Prima mi viene a cercare, poi mi impedisce di avvicinarmi. Come mai, deve forse chiedere prima il permesso a te? Daglielo, allora." Spinse la lama contro il ventre di Pie. "Avanti. Digli di essere carino con me o morirà."

Gentle abbassò un poco le mani, molto lentamente, come se volesse appellarsi all'amico. "Credo che non ci rimanga altra scelta," disse. Con lo sguardo continuava a passare dall'espressione impassibile sul viso del mystif alla spada puntata sul suo ventre, cercando di confrontare il tempo che ci sarebbe voluto a uno pneuma perché tagliasse la testa di N'ashap con la velocità della lama del Capitano. In più, N'ashap non era l'unico attore sulla scena. C'erano già tre guardie bene armate e altre sicuramente erano in arrivo.

"È meglio che tu faccia quello che vuole," disse Gentle tirando un lungo respiro mentre finiva la frase.

N'ashap se ne accorse e vide anche che si portava la mano alla bocca. Sebbene ubriaco, si rese conto del pericolo e lanciò un urlo agli uomini che si trovavano nel passaggio dietro di lui, togliendosi dalla loro linea di fuoco e anche da quella di Gentle. Non potendo più cogliere il primo bersaglio, Gentle diresse il respiro contro il secondo. Lo pneuma investì le guardie nel momento in cui queste imbracciavano le armi e ne colpì una con una tale violenza da farle scoppiare il torace. La forza del soffio scagliò il corpo addosso alle altre due. Una cadde immediatamente e, nella caduta, l'arma le volò via di mano. L'altra guardia rimase momentaneamente accecata dal sangue e da una pioggia di viscere, ma si riprese subito e sarebbe riuscita a far saltare la testa di Gentle se il suo bersaglio non si fosse scagliato sul corpo della guardia caduta. L'altra scaricò l'arma con una raffica micidiale ma, prima che potesse ricominciare a fare fuoco, Gentle aveva fulmineamente raccolto il fucile caduto all'altro soldato morto e aveva risposto al fuoco. La guardia aveva sangue Oethac a sufficienza per rimanere insensibile alle pallottole che venivano sparate nella sua direzione, finché una non la colpì nell'occhio facendoglielo saltare via. La guardia urlò e cadde all'indietro, abbandonando il fucile per portarsi le mani alla ferita.

Ignorando il terzo uomo che ancora gemeva sul pavimento, Gentle si diresse verso la porta della cella. Dentro, il Capitano N'ashap era a faccia a faccia con Pie'oh'pah. Il mystif teneva la mano sulla lama della spada. Dal palmo tagliato scorreva il sangue, ma il Comandante non sembrava avere intenzione di infliggere a Pie altre ferite. Fissava il viso di Pie con un'espressione assorta.

Gentle si bloccò, sapendo che qualsiasi intervento da parte sua avrebbe distolto N'ashap da quello stato stuporoso in cui si trovava. Chiunque stesse vedendo sull'immagine di Pie - forse la puttana che assomigliava a sua madre? - un'altra eco di Tishalullé, in quel luogo di madri perdute - bastava a impedire alla sua spada di tranciare le dita del mystif.

N'ashap cominciò a piangere. Pie era immobile e non distolse nemmeno per un attimo lo sguardo dal viso del Capitano. Sembrava sul punto di far prevalere il desiderio di N'ashap sulle sue intenzioni omicide. La mano di N'ashap allentò la presa sull'impugnatura della spada. Il mystif aprì le dita e il peso dell'arma, non più trattenuta dalla stretta del Capitano, la fece piombare a terra. Ma il rumore della spada che batteva sulla pietra fu troppo forte perché N'ashap, per quanto quasi ipnotizzato, non lo sentisse. Il Capitano scosse la testa violentemente, lo sguardo che saettava dal viso di Pie all'arma caduta.

Il mystif fu più veloce, con due salti era già alla porta. Gentle respirò a fondo e stava per portare la mano alla bocca, quando udì Huzzah urlare. Si voltò verso la bambina che stava indietreggiando spinta da due guardie, entrambe Oethac. Una le impediva di fuggire, l'altra teneva gli occhi fissi su Gentle. Pie afferrò il compagno per un braccio e lo spinse fuori dalla porta, mentre N'ashap, ancora intento a rialzarsi, si lanciava al loro inseguimento brandendo la spada. Non c'era più tempo per neutralizzarlo con uno pneuma. Gentle riuscì ancora soltanto ad afferrare la maniglia della porta e a chiuderla sbattendola. La chiave era ancora nella serratura ed egli la girò mentre il corpo pesante di N'ashap si abbatteva dall'altro lato contro la porta chiusa.

Huzzah correva adesso separata dal suo inseguitore solo dalla seconda guardia. Lanciato il fucile a Pie, Gentle si precipitò verso Huzzah per raggiungerla prima dell'Oethac. Huzzah balzò tra le braccia di Gentle che subito si tolse, insieme alla piccola, dalla traiettoria del fuoco di Pie. L'Oethac si rese conto del pericolo e imbracciò il fucile. Gentle si rivolse a Pie.

"Uccidi quello stronzo!" urlò, ma il mystif fissava il fucile che teneva in mano come se fosse stato coperto di merda.

"Pie, per amor del Cielo! Spara!" Il mystif alzò l'arma ma sembrava incapace di premere il grilletto. "Spara!" urlò ancora Gentle. Il mystif scosse il capo, e avrebbe condannato a morte tutti e tre se dalle sue spalle non fossero stati esplosi due colpi precisi diretti alla nuca delle guardie, che caddero al suolo istantaneamente.

"Papà!" esclamò Huzzah.

Era il Sergente, con Scopique al seguito, che si faceva strada tra il fumo. Gli occhi di Aping non guardavano la figlia che aveva appena salvato da morte sicura. Fissavano invece i soldati che egli aveva ucciso proprio a quello scopo. Era traumatizzato da quanto aveva fatto. Anche quando Huzzah andò verso di lui, piangendo di felicità e di paura, lui quasi nemmeno la notò. E continuò a non vederla finché Gentle non lo scosse da quello stupore colpevole che lo immobilizzava, dicendogli che dovevano muoversi, altrimenti avrebbero perso anche quella mezza possibilità di salvarsi che era rimasta loro. In quel momento si riscosse e parlò: "Erano i miei uomini," disse.

"E questa è tua figlia," ribatté Gentle. "Hai fatto la scelta giusta."

N'ashap continuava a picchiare alla porta della cella e a chiedere aiuto. Ancora pochi minuti e l'avrebbe ricevuto.

"Qual è la via più veloce per uscire di qui?" chiese Gentle a Scopique.

"Voglio prima liberare gli altri," rispose Scopique. "Padre Athanasius, Izaak, Schiamazzo..."

"Ma non c'è tempo," disse Gentle. "Diglielo, Pie! Dobbiamo andare adesso o mai più. Pie? Sei con noi o no?"

"Sì..."

"Allora smettila di sognare e andiamo."

Scopique condusse il quintetto fuori all'aria della notte passando da un'uscita sul retro, senza smettere di protestare per il fatto d'aver abbandonato gli altri al loro destino. L'uscita non dava sui bastioni ma sulla nuda roccia.

"E ora da che parte andiamo?" chiese Gentle, mentre da sotto si udivano aumentare le grida. N'ashap era stato sicuramente liberato e probabilmente era scattato l'allarme generale. "Dobbiamo arrivare all'approdo più vicino."

"Alla penisola, dunque," disse Scopique dirigendo lo sguardo di Gentle oltre la Culla, verso un braccio di terra bassa che si distingueva appena nel buio della notte.

L'oscurità era la loro migliore alleata. Se si fossero mossi abbastanza velocemente, li avrebbe coperti senza che i loro inseguitori potessero avere anche soltanto il tempo di intuire la direzione che avevano preso. Trovarono un sentiero a strapiombo sulla parete dell'isola che fronteggiva la terraferma. Gentle guidava il gruppo sapendo benissimo d'aver lui la responsabilità dei quattro che lo seguivano, dato che Huzzah era una bambina, suo padre era distrutto dal senso di colpa, Scopique aveva sguardo e pensiero rivolti a coloro che aveva abbandonato, e Pie sembrava inebetito dopo lo spargimento di sangue. Era una cosa davvero strana per una creatura che dopotutto Gentle aveva incontrato per la prima volta proprio nelle vesti di assassino, anche se in effetti quel viaggio li aveva molto cambiati entrambi.

Raggiunta la riva, Scopique disse: "Mi dispiace, ma non posso. Continuate da soli. Io torno indietro per cercare di salvare gli altri."

Gentle non provò nemmeno a dissuaderlo. "Se è questo che vuoi, buona fortuna," gli augurò. "Noi dobbiamo andare."

"Certo che dovete! Pie, amico mio, mi spiace ma non potrei mai perdonarmi se voltassi le spalle agli altri. Abbiamo sofferto per troppo tempo insieme." Prese la mano del mystif. "So cosa stai per dirmi, ma non preoccuparti, sopravvivrò. So qual è il mio dovere e sarò pronto quando arriverà l'ora di agire."

"Ne sono sicuro," rispose il mystif trasformando la stretta di mano in un abbraccio.

"Arriverà presto," disse Scopique.

"Certo, prima di quanto io stesso desideri," gli rispose Pie. Poi, mentre Scopique risaliva la scogliera, il mystif si riunì a Gentle, Huzzah e Aping, che erano ormai a una decina di metri dalla riva.

Il dialogo tra Pie e Scopique - con quell'accenno a un programma fino a quel momento segreto - non era sfuggito all'attenzione di Gentle, né sarebbe passato sotto silenzio. Ma non era certo quello il momento più opportuno per discuterne. Avevano almeno una decina di chilometri da fare prima di raggiungere la penisola e dietro di loro un frastuono crescente li avvertiva che l'inseguimento era iniziato. La luce delle torce illuminò la spiaggia quando le prime truppe di N'ashap uscirono per dare la caccia agli evasi e dalle mura del manicomio si alzarono le grida dei prigionieri che finalmente lasciavano sfogare la loro rabbia. Quel frastuono avrebbe potuto confondere i segugi, ma non per molto.

Le torce individuarono presto Scopique e i loro aloni di luce presero a perlustrare il sentiero che il teologo stava risalendo, abbracciando a mano a mano un'area sempre maggiore. Aping aveva preso in braccio Huzzah e in questo modo riuscirono ad accelerare un poco l'andatura. Gentle aveva appena cominciato a illudersi che forse ce l'avrebbero fatta quando il cono di luce di una torcia li scoprì. Quel chiarore, data la distanza, era debole, ma bastò a farli individuare. Seguì una gragnuola di pallottole. Ma i quattro erano bersagli difficili, e la prima scarica li mancò.

"Ci prenderanno," ansimò Aping. "Dovremmo arrenderci." Posò per terra la figlia e gettò via il fucile, poi si volse verso Gentle e gli vomitò in faccia un'ondata di accuse. "Perché mai ti ho ascoltato? Devo essere pazzo!"

"Se rimaniamo qui ci fucileranno sul posto," replicò Gentle. "Anche Huzzah. È questo che vuoi?"

"Non ci spareranno," lo contraddisse Aping, tenendo con una mano Huzzah e sollevando l'altra a incontrare i raggi di luce delle torce. "Non sparate!" urlò. "Non sparate! Capitano? Capitano! Signore! Ci arrendiamo!"

"Ma fottiti!" gridò Gentle, e allungò un braccio per strappare Huzzah alla presa del padre.

La bambina si abbandonò prontamente alla mano di Gentle, ma Aping era tutt'altro che deciso a lasciarla andare così facilmente. Si voltò per riafferrarla, quando una pallottola scalfì il ghiaccio sotto i loro piedi. Aping lasciò andare Huzzah e si girò per cercare di nuovo di far cessare il fuoco. Due pallottole lo colpirono, una alla gamba, la seconda al petto. Huzzah lanciò un urlo e si liberò dalla presa di Gentle per gettarsi là dov'era caduto il padre.

I secondi che stavano perdendo con il tentativo di resa e la morte di Aping potevano rappresentare la differenza tra la speranza e la fine. Uno qualunque della ventina di soldati che li braccavano avrebbe ora potuto colpirli, a quella distanza. Persino N'ashap, che era in testa al gruppo e sembrava ancora piuttosto malfermo sulle gambe, non avrebbe potuto mancare il colpo.

"E adesso che facciamo?" chiese Pie.

"Dobbiamo proseguire," rispose Gentle. "Non abbiamo altra scelta."

Il terreno su cui dovevano procedere non era molto più stabile di N'ashap. Sebbene i soli di quel Dominio fossero in quel momento sull'altro emisfero e in ogni punto dell'orizzonte non ci fosse altro che notte buia, il mare gelato fu percorso da un fremito che Pie e Gentle riconobbero subito, avendone già fatto la terribile esperienza. Anche Huzzah lo avvertì. Ma lei alzò il viso e si calmò.

"La Signora..." mormorò.

"Cosa?" esclamò Gentle.

"E qui, vicino a noi."

Gentle allungò la mano e Huzzah l'afferrò. Mentre la bambina si alzava, il ghiaccio sotto di lei si ruppe. La stessa cosa accadde a Gentle, il cui cuore cominciò a battere furiosamente mentre le immagini della Culla che si liquefaceva gli tornavano alla memoria.

"Puoi fermarla?" mormorò a Huzzah.

"Non è venuta a prender noi," rispose la bambina, e il suo sguardo si spostò dal terreno ancora solido su cui poggiavano al gruppo condotto da N'ashap.

"Oh, Dea..." mormorò Gentle.

Un grido di allarme si propagò nel gruppo degli inseguitori. Uno dei raggi di luce della torcia sembrò impazzire; poi toccò a un altro e a un altro ancora: a uno a uno i soldati si resero conto del rischiò enorme che correvano. Lo stesso N'ashap lanciò un urlo: era un'ordine di serrare le file che però non venne eseguito. Non era facile capite che cosa stesse succedendo esattamente, ma Gentle riuscì a immaginarlo con sufficiente precisione. Il terreno si stava sciogliendo e le acque argentee della Culla si aprivano e ribollivano sotto i piedi di quei soldati. Uno di loro sparo in aria, mentre lo strato solido del mare si rompeva sotto di lui; altri due o tre iniziarono a correre verso l'isola, per accorgersi subito che la fuga e il panico non avevano fatto altro che accelerare la fine. Si inabissarono come se fossero stati addentati dagli squali, lasciando in superficie una schiuma argentea. N'ashap tentava ancora di riprendere il comando, ma era una causa persa in partenza. Rendendosene conto, aprì personalmente il fuoco sul terzetto. Il terreno sotto i suoi piedi, però, ormai cedeva inarrestabile, e non c'era più nessuno a dirigere i raggi delle torce sul bersaglio. Così i colpi furono esplosi a vuoto.

"Dovremmo andarcene di qui," disse Gentle. Ma Huzzah era di diverso avviso.

"Non ci farà del male, se non avremo paura," rispose.

Gentle stava per confessarle di avere una grandissima paura, ma restò zitto e immobile sebbene la Dea, a giudicare dallo spettacolo che avevano sotto gli occhi, non avesse dato prova di grande accuratezza nel discernere il malvagio dallo sconsiderato, l'impenitente dal devoto. Tutti gli inseguitori, eccetto quattro - N'ashap era fra questi ultimi - erano stati ingoiati dal mare; alcuni ormai completamente scomparsi sotto le onde, altri ancora disperatamente alla ricerca di un appiglio cui aggrapparsi. Gentle vide un uomo che tentava di issarsi su un pezzo di superficie ancora solida, ma il soldato non fece nemmeno in tempo a lanciare un urlo che quella lastra si liquefece e la Culla si richiuse sopra di lui. Un altro si inabissò lanciando insulti all'acqua che gli ribolliva intorno, e continuando a sparare fino all'ultimo con il fucile tenuto alto.

Tutti i soldati che portavano la torcia erano ormai stati inghiottiti, e a quel punto l'unica luce era quella che proveniva dalla sommità della scogliera, da dove i soldati che avevano avuto la fortuna di rimanere sull'isola contemplavano attoniti il massacro. La luce era diretta sulle figure di N'ashap e degli altri tre sopravvissuti, uno dei quali stava cercando di raggiungere il terreno solido su cui rimanevano abbarbicati Gentle, Pie e Huzzah. Ma il panico gli fu fatale. Gli mancavano appena cinque passi quando un'ondata di schiuma argentea gli si parò dinnanzi. L'uomo si girò per correre nella direzione opposta ma il terreno dietro di lui era già diventato argento ribollente. In preda alla disperazione, allora, lanciò in aria il fucile e tentò di spiccare un salto verso la salvezza, ma lo slancio non fu sufficiente e s'inabissò all'istante.

Uno dei tre sopravvissuti, un Oethac, si inginocchiò per pregare, e ciò non fece altro che avvicinarlo ulteriormente al suo carnefice, un compagno che lo tirò giù tra grida e imprecazioni, dandogli solo il tempo di afferrare la gamba dell'ultimo soldato e di trascinare anche quello con sé negli abissi. Il mare ribollente in cui tutti i soldati erano scomparsi non cessò di schiumare, anzi, raddoppiò la sua furia. N'ashap, l'ultimo dei sopravvissuti, guardò in faccia quel mare, ed esso si alzò come una fontana fino a sovrastarlo.

"La Signora..." mormorò Huzzah.

Era lei. Sull'acqua, si stagliava ora una figura femminile con il viso illuminato da luccichii e scintillii. La Dea o la sua immagine costituita della sua sostanza originaria. Scomparve così com'era apparsa portandosi giù N'ashap. Il Capitano fu ingoiato così rapidamente e la Culla riprese a dondolare subito dopo con tale calma che fu come se la madre del povero N'ashap non gli avesse mai dato vita.

Lentamente, Huzzah si voltò verso Gentle. Sebbene ai suoi piedi giacesse il padre morto, la piccola sorrideva nell'oscurità: il primo vero sorriso che Gentle scoprisse sul suo volto.

"La Signora della Culla è giunta," disse Huzzah.

 

Rimasero ancora un po' in attesa ma non ci furono altre visite. Quello che la Dea aveva fatto - per salvare la bambina, come Huzzah avrebbe continuato a credere, o perché le circostanze le avevano portato a tiro le forze che avevano contaminato la sua Culla con la loro crudeltà - l'aveva fatto con tale economia di mezzi che non perse un secondo di più ad assaporare il trionfo o a nutrire sentimentalismi. Risolidificò il mare con la stessa efficienza con cui l'aveva liquefatto senza lasciare la minima traccia dell'accaduto.

Le guardie rimaste sull'isola si guardarono bene dal tentare ogni altro tipo di inseguimento, sebbene continuassero a presidiare le loro postazioni e a rivolgere le torce verso l'oscurità.

"Abbiamo molto mare da percorrere prima che faccia giorno," disse Pie. "Sarà bene arrivare alla penisola prima che sorgano i soli."

Huzzah prese la mano di Gentle.

"Papà ti ha detto dove saremmo dovuti andare una volta a Yzordderrex?"

"No," le rispose l'uomo. "Ma troveremo lo stesso la casa."

Huzzah non si voltò a guardare il corpo del padre, ma fissò gli occhi sulla massa grigia della terraferma lontana e cominciò a camminare senza lamentarsi. Di quando in quando sorrideva a se stessa, ricordando che quella notte le aveva offerto la visione di un genitore che non l'avrebbe mai abbandonata.

 

29

 

I

 

Nel territorio situato tra le rive della Culla e i confini del Terzo Dominio esisteva, fino all'avvento dell'Autarca, una meraviglia naturale universalmente considerata il centro dell'Imagica: una colonna di roccia scheggiata e lucida cui erano stati attribuiti innumerevoli nomi e poteri dagli sciamani, dai poeti e dagli scrittori che si erano recati lì in cerca di ispirazione. Non esisteva comunità in tutti i Domini Riconciliati che non l'avesse racchiusa nel proprio patrimonio mitologico e non avesse cercato di appropriarsene chiamandola a modo suo. Tuttavia, il suo nome più vero era forse anche il più semplice: il Cardine. Per secoli si erano susseguite discussioni e controversie per stabilire se l'Imperscrutato l'avesse posta lì nelle desolate lande fumose del Kwem per segnare il punto equidistante da tutti i confini dell'Imagica, o se fosse esistita in quel luogo un'intera foresta di simili colonne e, successivamente, una mano (mossa forse dalla saggezza di Hapexamendios) le avesse abbattute tutte eccetto quella.

Quali che fossero le argomentazioni sulle sue origini, nessuno aveva mai messo in dubbio il potere che la pietra aveva accumulato stando al centro dei Domini. Diverse linee di pensiero avevano attraversato il Kwem per secoli e secoli, apportando un carico di forza che il Cardine aveva attirato a sé con l'irresistibile energia di un magnete. Quando l'Autarca arrivò nel Terzo Dominio, dopo aver stabilito il suo peculiare regime dittatoriale a Yzordderrex, il Cardine divenne l'oggetto più potente in tutta l'Imagica. L'Autarca mise accuratamente a punto i propri piani e, quando fece ritorno al palazzo che stava facendo costruire a Yzordderrex, vi fece aggiungere alcuni elementi il cui scopo restò ignoto per quasi due anni, finché, muovendosi con la rapidità che di solito usava nei suoi colpi di mano, sradicò il Cardine e lo fece trasportare nella torre del suo palazzo prima che il sangue di quanti avevano tentato di opporsi a quel sacrilegio si fosse asciugato.

In una sola giornata, la geografia dell'Imagica mutò completamente. Yzordderrex divenne il cuore dei Domini. Da quel momento non ci sarebbe stato potere, secolare o sacro, che non avrebbe avuto origine in quella città; non ci sarebbero stati incroci nei Domini Riconciliati che non avrebbero portato il suo nome, né autostrade in cui non si sarebbero visti supplici o devoti penitenti che rivolgevano gli sguardi anelanti salvezza in direzione di Yzordderrex. Si pregava ancora in nome dell'Imperscrutato e si mormoravano benedizioni con i nomi proibiti delle Dee, ma il vero Signore era adesso Yzordderrex, di cui l'Autarca era la mente e il Cardine il fallo.

 

Erano trascorsi centosettantanove anni dal giorno in cui il Kwem aveva perduto la sua grande meraviglia, ma l'Autarca andava ancora in pellegrinaggio in quelle lande, quando sentiva il bisogno di un po' di solitudine. Alcuni anni dopo aver trasferito il Cardine a Yzordderrex, l'Autarca fece costruire presso il luogo in cui una volta esso si ergeva un piccolo palazzo; un edificio piuttosto spartano se paragonato ai folli eccessi architettonici che trionfavano a Yzordderrex. Questa residenza rappresentava il suo rifugio nei momenti di smarrimento: lì poteva meditare sulle miserie del potere " assoluto, lasciando che il suo Alto Comando Militare, cioè i generali che governavano i Domini in sua vece, obbedisse agli ordini della sua un tempo amata Regina, Quaisoir. Di recente, la Regina aveva sviluppato quel gusto per la repressione che in lui invece andava affievolendosi, al punto che egli aveva riflettuto più volte sulla possibilità di ritirarsi definitivamente nel palazzo di Kwem lasciando a lei il potere assoluto, visto che ne traeva tanto piacere. Ma non erano che sogni, un piccolo piacere della fantasia, e lui lo sapeva. Sebbene avesse governato sull'Imagica restando invisibile - non un'anima, al di fuori di quella ventina di persone che collaboravano con lui quotidianamente, l'avrebbe riconosciuto tra una folla di bianchi dotati di buon gusto nel vestire - erano state le sue visioni a creare la grandezza di Yzordderrex, e nessuno poteva essere in grado di sostituirlo.

In giorni come quello, tuttavia, quando l'aria fredda della via di Lenten fischiava nei meandri del palazzo di Kwem, l'Autarca non avrebbe desiderato altro che poter sostituire se stesso con l'immagine che vedeva nello specchio ogni mattina, mandarla a Yzordderrex e lasciare che fosse lei a governare al posto suo. Solo così lui, l'Autarca, se ne sarebbe potuto restare lì a riflettere sul suo lontano passato, sull'Inghilterra a metà dell'estate. Allora, quando si svegliava, le strade di Londra erano lucide di pioggia, i campi fuori città ispiravano pensieri di pace e le api riempivano il silenzio con il loro ronzio. Quelle erano le scene che ricordava con maggiore struggimento quando era di umore malinconico. Simili momenti, peraltro, non duravano a lungo. L'Autarca era troppo realista e ai suoi ricordi chiedeva sempre tutta la verità. Sì, aveva piovuto, ma la pioggia aveva portato anche il veleno che aveva rovinato la frutta ancora da raccogliere. Il silenzio di quei campi era quello che seguiva la battaglia e il fruscio non veniva dalle fronde degli alberi ma dalle mosche che cercavano un posto dove deporre le uova.

La sua vita era cominciata proprio quell'estate, i cui primi giorni erano stati segnati non dai simboli dell'amore e della fecondità ma da quelli dell'Apocalisse. Nel parco, quell'anno, non c'era predicatore che non proponesse le sue visioni, né una puttana sulla Drury Lane che non sostenesse di aver visto il Diavolo ballare sui tetti a mezzanotte. Come evitare l'influsso di quei giorni che l'avevano riempito dell'orrendo timore di una distruzione imminente e avevano fatto nascere in lui un desiderio smodato di ordine, di legge, di Impero? Egli era un figlio del suo tempo, e se quest'ultimo l'aveva reso così spietato nel suo perseguire l'ordine, di chi era la colpa? Sua, o non piuttosto della sua epoca?

La tragedia non stava tanto nella sofferenza, conseguenza inevitabile di ogni mutamento sociale, quanto nel fatto che i suoi risultati fossero adesso messi a repentaglio da forze che se mai un giorno avessero vinto avrebbero riportato l'Imagica nel caos cui lui l'aveva strappata, distruggendo la sua opera in una frazione di tempo infinitesimale rispetto a quanto ne era occorso a lui per realizzarla. Non aveva scelta: i sovversivi andavano soppressi. Così, dopo gli eventi di Patashoqua e la scoperta dei complotti organizzati contro di lui, l'Autarca si era ritirato nella quiete del Palazzo di Kwem per decidere la linea da tenere. Avrebbe potuto continuare a considerare le ribellioni, gli scioperi e le rivolte come fastidi di scarsa importanza e limitare la sua reazione a piccoli ma eloquenti atti di repressione, come ad esempio l'incendio del villaggio di Beatrix, oppure i processi e le esecuzioni di Vanaeph. Questa possibilità presentava però due grossi limiti. L'ultimo attentato che aveva subito, anche se non era andato a segno, era ancora troppo recente per farlo stare tranquillo: e finché l'ultimo radicale rivoluzionario non fosse stato messo definitivamente a tacere, la sua vita sarebbe stata in pericolo. Inoltre, dato che nel suo regno c'erano già stati tumulti cui egli aveva risposto con calcolata brutalità, come sperare che una semplice nuova ondata di epurazioni e repressioni potesse sortire l'effetto desiderato? Non era forse giunta l'ora di progetti più ambiziosi? Imporre nelle città la legge marziale; destituire e imprigionare i Tetrarchi, rivelando quanto fossero corrotti nel nome di una Yzordderrex più giusta; rovesciare i governi locali e sgominare ogni resistenza utilizzando l'intero potenziale dell'esercito del Secondo Dominio. Forse anche Patashoqua doveva essere bruciata com'erano già state bruciate Beatrix o L'Himby e i suoi squallidi templi.

Se questa linea fosse stata perseguita con decisione e coronata dal successo, la situazione si sarebbe sistemata una volta per tutte. Al contrario, se i suoi consiglieri avessero sottovalutato le proporzioni del malcontento popolare o le qualità dei capipopolo, allora il cerchio si sarebbe stretto e l'Apocalisse in cui egli stesso era nato in quell'estate lontana si sarebbe ripresentata lì, nel cuore della sua terra promessa. Che cosa sarebbe successo allora se, al posto di Patashoqua, fosse stata incendiata Yzordderrex? Dove avrebbe potuto trovare rifugio? Di nuovo in Inghilterra, forse? L'Autarca si chiese se la casa di Clerkenwell esistesse ancora e, se esisteva, se le sue stanze erano ancora consacrate alle opere del desiderio... oppure la potenza distruttrice del Maestro le aveva ridotte a un cumulo dì macerie? Quelle domande lo tormentavano. E, pensando a quelle cose, scoprì in se stesso una curiosità, anzi, più che una curiosità, un desiderio di sapere che aspetto avesse assunto il Dominio Non Riconciliato nel corso di quei due secoli.

Fu interrotto nelle sue riflessioni da Rosengarten, il Giardino di Rose, soprannome ironico che l'Autarca aveva dato a un uomo che era forse l'essere più sterile che mai avesse camminato nel mondo. Sfigurato dalle chiazze lasciategli da una malattia che aveva contratto nelle paludi di Loquiot e negli spasmi della quale si era un giorno evirato, Rosengarten viveva ora solo per il dovere. Tra i Generali, era l'unico che non peccasse con qualche eccesso contro l'austerità di quelle stanze. Parlava e si muoveva con calma, non puzzava di profumi, non beveva mai e non masticava nemmeno il kreauchee. Era una nullità assoluta ed era l'unica persona di cui l'Autarca si fidasse ciecamente.

Rosengarten era arrivato con alcune notizie che espose con chiarezza e semplicità. Il manicomio sul Mare di Chzercemit era stato teatro di una rivolta. Quasi tutte le guardie erano rimaste uccise in circostanze ancora non del tutto chiarite, mentre un gruppo di detenuti guidati di un individuo di nome Scopique era riuscito a fuggire.

"Quanti erano?" chiese l'Autarca.

"Ho la lista, signore," rispose Rosengarten, aprendo il dossier che aveva portato con sé. "All'appello non rispondono cinquantun persone, la maggior parte dissidenti religiosi."

"Donne?"

"Nessuna."

"Avremmo dovuto giustiziarli, altro che tenerli rinchiusi."

"Molti di loro avrebbero accettato ben volentieri il martirio, signore. La decisione di incarcerarli è stata presa proprio tenendo conto di questo."

"Adesso, però, torneranno alle loro greggi e continueranno a predicare la rivoluzione. Dobbiamo impedirglielo. Quanti di loro erano attivi a Yzordderrrex?"

"Nove. Incluso Padre Athanasius."

"Athanasius? Chi è?"

"Il Dearther che affermava di essere il Cristo. Aveva una congregazione nei pressi del porto."

"È molto probabile che vi faccia ritorno."

"Certo, Signore."

"Tutti loro faranno ritorno al proprio gregge, prima o poi. Dobbiamo stare pronti. Nessun arresto. Nessun processo. Ci limiteremo a farli fuori senza rumore."

"Sissignore."

"Non voglio che Quaisoir sappia nulla al riguardo."

"Temo che già lo sappia, signore."

"Allora dobbiamo impedirle di fare qualche azione dimostrativa."

"Capisco, signore."

"Tutto dev'essere fatto con la massima discrezione."

"Ma c'è ancora qualcosa, signore."

"Che cosa?"

"Sull'isola, prima della rivolta, c'erano altri due individui..."

"E allora?"

"E difficile capire esattamente quanto sta scritto sulla relazione. Uno di loro sembra essere un mystif. La descrizione dell'altro è piuttosto interessante..."

Rosengarten allungò la relazione all'Autarca, il quale la sfogliò prima velocemente, poi con sempre maggiore attenzione.

"Pensi che il rapporto sia fedele?" chiese l'Autarca a Rosengarten.

"A questo punto, non lo so. Le descrizioni sono state confermate ma non ho interrogato gli uomini personalmente."

"Fallo, allora."

"Sissignore."

Riconsegnò a Rosengarten il rapporto. "Quante persone l'hanno visto?"

"Appena l'ho letto, ho distrutto tutte le altre copie. Credo che l'abbiano visto solo i funzionari addetti all'interrogatorio, il loro Comandante e io."

"Voglio che tutti i sopravvissuti della guarnigione vengano messi a tacere. Falli condannare dalla corte marziale e poi getta la chiave. I funzionari e il Comandante devono sapere che saranno ritenuti responsabili per la minima fuga di notizie, La pena prevista è la morte."

"Sì, signore."

"Per quanto riguarda il mystif e lo straniero, dobbiamo supporre che si stiano recando verso il Secondo Dominio. Prima Beatrix, poi la Culla. La loro meta non può essere che Yzordderrex, Quanti giorni sono passati dalla rivolta?"

"Undici, signore."

"Allora, anche se hanno fatto tutto il viaggio a piedi, arriveranno a Yzordderrex fra pochi giorni. Trovali. Voglio sapere tutto su di loro." L'Autarca gettò un'occhiata dalla finestra sul deserto di Kwem. "Probabilmente hanno preso la via di Lenten. Probabilmente sono passati a poche miglia da qui." La sua voce rivelava una sottile inquietudine. "È la seconda volta che le nostre strade quasi si incrociano. E adesso ci sono anche dei testimoni in grado di descriverli alla perfezione. Che cosa significa tutto questo, Rosengarten? Che cosa significa?"

Quando il Comandante non sapeva cosa rispondere, come in questo caso, rimaneva in silenzio: comportamento degno di ammirazione.

"Neanch'io lo so," riprese l'Autarca. "Forse dovrei uscire a prendere una boccata d'aria. Oggi mi sento vecchio."

 

La cavità rimasta al posto del Cardine quando quest'ultimo era stato sradicato era ancora visibile, sebbene i forti venti di quella regione ne avessero quasi livellato la cicatrice. L'Autarca aveva scoperto che meditare sull'assenza sull'orlo di quel fosso gli piaceva. Cercò di farlo anche stavolta, il viso avvolto nella seta per riparare la bocca e il naso dalle raffiche di vento pungente, il cappotto di pelliccia ben abbottonato, le mani guantate affondate nelle tasche. Ma la calma che altre volte era riuscito a ritrovare attraverso quelle riflessioni ora gli sfuggiva irrimediabilmente. Quella disciplina dell'assenza era una disciplina che s'addiceva allo spirito quando i doni del mondo erano a portata di mano in quantità illimitate. Ma le cose ora stavano diversamente» In quel momento per lui l'assenza rappresentava un vuoto che temeva e, allo stesso tempo, aveva paura di riempire. Per quanto innalzasse barriere di difesa e rinserrasse la propria anima, ci sarebbe stata sempre una persona in grado di forzarle, e quel pensiero gli faceva palpitare il cuore. L'Altro conosceva l'Autarca come se stesso: le sue debolezze, i suoi desideri, le sue più alte ambizioni. Le cose che avevano fatto insieme - cose sanguinose, in massima parte - erano rimaste celate e invendicate per due secoli, ma mai l'Autarca si era illuso che potessero rimanere tali per l'eternità. Un giorno o l'altro, forse presto, tutto sarebbe finito.

Sebbene il freddo non potesse penetrargli nella carne attraverso il cappotto, l'Autarca rabbrividì al pensiero. Aveva vissuto per troppo tempo come un uomo che cammini soltanto sotto il sole di mezzogiorno e non abbia mai un'ombra né davanti né dietro di sé. I profeti non potevano prevederne le gesta, né gli accusatori scoprire i suoi crimini. Era intoccabile. Ma ora tutto sarebbe cambiato. Quando lui e la sua ombra si fossero incontrati - come inevitabilmente sarebbe successo - su entrambi si sarebbe abbattuto il peso di mille profezie e di mille accuse.

Spostò la seta dal viso e lasciò che il vento pungente lo sferzasse. Non c'era motivo per rimanere ancora in quel luogo. Prima che il vento riuscisse a riplasmare i suoi lineamenti, lui avrebbe perso Yzordderrex e, sebbene quella potesse apparire adesso una piccola sconfitta, nel giro di poche ore si sarebbe potuta rivelare la sola preda suscettibile d'essere preservata dalla distruzione.

 

II

 

Se, una notte, gli ingegneri divini che avevano innalzato il Jokalaylau avessero posto la sua cima più superba tra un deserto e un oceano, e la notte successiva e per tutte le notti del secolo a venire fossero tornati a cesellarne i picchi e i pendii, dalle vallate ai suoi piedi fino alle vette coperte di nubi, con modeste abitazioni e piazzali magnifici, con strade, bastioni e padiglioni; e se, dopo aver fatto tutto questo, avessero posto nel cuore della montagna un fuoco capace di ardere in eterno senza consumarsi, allora il loro capolavoro, colmo all'inverosimile d'ogni tipo di vita, avrebbe potuto meritare di essere paragonato a Yzordderrex. Ma, dato che un simile capolavoro non era stato, fino a quel momento, mai realizzato, la città di Yzordderrex rimaneva senza rivali in tutta l'Imagica.